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Il verbale della confessione

Sangare, la notte di follia raccontata dal killer: “Mi sono chiesto perché non stessi piangendo”

Nuovi dettagli dopo l'interrogatorio di convalida: "Sharon provò a scappare e prima di morire mi chiamò 'codardo', le sue grida mi mandarono in 'para'". La metamorfosi da sbandato ad assassino tra musica rap, droghe e ossessione per i coltelli: "Mi piacciono i film dove li usano"

Bergamo. Prima, durante e dopo l’omicidio. Le dichiarazioni rese al gip nell’interrogatorio di convalida aiutano a decifrare la controversa personalità di Moussa Sangare, il trentenne reo confesso dell’assassinio della povera Sharon Verzeni la notte tra il 29 e 30 luglio scorsi a Terno d’Isola. Alcune frasi sono già trapelate sui media, altre qui riportate sono del tutto inedite e mettono i brividi per l’apparente leggerezza con cui vengono pronunciate. Ma andiamo con ordine.

Sangare inizia con la descrizione delle sue giornate tipo: “Quando mi alzo dipende da quando sono andato a letto la sera prima”. “Se il wi-fi funziona lavoro da casa”, un piccolo locale occupato abusivamente sotto l’appartamento della sorella che lo aveva già denunciato per maltrattamenti. Dice di “sistemare biciclette”, senza specificare se lo fa per racimolare qualche soldo o come passatempo. “Io faccio musica principalmente rnh e hip-hop”, aggiunge. Questo sì, lo definisce un “lavoro”. “Che può portarmi via da un’ora a giorni a settimane”. “Ci sono giorni in cui l’ispirazione manca”, così “ci fumiamo le canne in studio”. “Cerco sempre di avere qualcosa da fumare”. Con i soldi dei “diritti della musica” compra “fumo” e “birra”. In passato, per arrotondare, il fumo lo spacciava. Roba di “dieci undici anni fa”.

In passato ammette di avere anche assunto eroina “per provarla”, ma di averla presto “buttata”. “Ho provato l’mdma (ecstasy, ndr)  sempre in passato quando ero a Londra” e “facevano i party”. Il famoso viaggio all’estero dal quale il ragazzo non si sarebbe più ripreso. Tra musica, droghe, “scrollate” al cellulare, masturbazione e qualche prostituta (dice di essere “bisex” e di non avere relazioni stabili), nella vita piena d’ozio dell’omicida c’è anche spazio per l’attività sportiva. “Calcio, basket, skate, tiro con l’arco, tiro al coltello”. Quest’ultimo praticato anche in casa, su una sagoma di cartone a forma di essere umano usata come bersaglio. “È difficile tirare con il coltello – spiega Sangare – perché devi guardare quante volte gira. Appena facevo centro smettevo”.

Gli piacciono i coltelli. “Sono belli, mi piacerebbe comprarne uno a scatto”. Dice di guardare i film “polizieschi”, che “non sono tutta fantasia”. Ma anche i programmi delle “storie vere”, “i casi dove l’assassino usa i coltelli”, un’ossessione. Quella sera li usa anche lui, per dare libero sfogo alle sue fantasie. Prima ne sventola uno davanti a due ragazzini di 15 anni incrociati in bici a Chignolo (“non hanno fatto nulla, volevo vedere come reagivano”). Poi racconta di essere “passato dritto”, di avere trovato una strada tra i campi e di essere sbucato a Terno. Qui vede un ragazzo “abbastanza grosso” a bordo di un’auto. Pensa di rubargli il computer, “sarebbe stato semplice”. Ma alla fine desiste.

Va avanti e incontra altre persone: qualcuno è seduto sul muretto di un parco, qualcun altro fuma una sigaretta. Saluta e il suo saluto viene ricambiato. Arriva nei pressi dell’area verde di via don Rota, dove c’è la statua di un uomo seduto. “Non so di cosa fosse fatta”, “ho fatto il gesto di sgozzare la statua”. Poi incrocia la 33enne Sharon Verzeni in via Castegnate. “Nel momento in cui mi sono avvicinato sapevo che volevo accoltellarla”. Le chiede “scusa per quel che sta per accadere”, poi le sferra una coltellata al petto e altre tre alla schiena, dopo averla rincorsa scendendo dalla bici. “Se mi avesse spintonato probabilmente me ne sarei andato”. Sharon trema, urla, gli dà del “codardo” e gli chiede “perché”, perché quel gesto folle. Lui la lascia a terra agonizzante. “Ho ripreso la bici e mi sono allontanato”. Specifica di non avere rapinato la ragazza “perché lei ha cominciato a urlare e mi è venuta la para”. In tasca ha gli appunti su un vecchio delitto riportato dai giornali: “Mi interessava quella notizia”. Agghiacciante.

La “para” – abbreviativo di paranoia, come la chiama lui – non gli passa tanto in fretta. A lato della strada ci sono parcheggiate delle auto. Quando ne incrocia una, racconta di avere “girato la faccia dall’altro lato”. “Sono passato in mezzo ai campi dove non c’erano telecamere”, poi dice di avere perso il berretto (“di lana”, in piena estate) e di essere tornato indietro a prenderlo. Nasconde il coltello in riva all’Adda a Medolago, memorizzando il punto esatto perché “volevo tenerlo lì come un ricordo, un souvenir” di quanto appena fatto. Testuale.

Una volta tornato a casa, Sangare si interroga. Non sulle condizioni della povera Sharon, no. È concentrato solo su sè stesso, sulle sue sensazioni. “Mi sono chiesto perché non stessi piangendo. Mi veniva da piangere però al tempo stesso mi sentivo libero. Pensavo: che roba!”. Il giorno dopo esce, come se nulla fosse. Non si sente braccato, nè dalla polizia nè dal rimorso. Gli amici, ignari della sua metamorfosi da semplice ‘sbandato’ ad assassino, lo attendono per una grigliata. Fuori c’è il sole. È la sua prima giornata da killer a piede libero.

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