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L'intervista

Fine vita, don Testa: “Dialogo senza tabù, possibili convergenze fra credenti e non”

L’insegnante di Teologia morale al Seminario di Bergamo e all’Istituto Superiore di Scienze religiose, già membro del comitato etico della provincia di Bergamo, illustra i contenuti del “Piccolo lessico del fine vita” redatto dalla Pontificia Accademia

“La Chiesa è contraria all’eutanasia, ma questo non significa che sostenga la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale a ogni costo. Bisogna valutarne attentamente la proporzionalità perché anche l’accanimento terapeutico non giova alla persona”. Così don Lorenzo Testa, insegnante di Teologia morale alla Scuola di Teologia del Seminario di Bergamo e all’Istituto Superiore di Scienze religiose, già membro del comitato etico della provincia di Bergamo dal 2013 al 2023, illustra i contenuti del “Piccolo lessico del fine vita” redatto dalla Pontificia Accademia.

L’opuscolo, fresco di pubblicazione, traccia una panoramica dei concetti riguardanti questo argomento molto delicato e dibattuto, in modo che ognuno possa avere tutti gli elementi per sviluppare attente riflessioni e definire il proprio orientamento di pensiero in materia. Con questo documento, che è tornato a porre la tematica al centro del dibattito pubblico, parafrasando una celebre citazione di don Tonino Bello, la Chiesa legge i “segni dei tempi”, espressione resa popolare da Papa Giovanni XXIII in occasione del Concilio Vaticano II. Senza farsi trascinare dalle varie ideologie, in un quadro caratterizzato da forti polarizzazioni, si lascia interpellare dai mutamenti della prassi medica e del modo di sentire perché, come sosteneva il pontefice bergamasco – il confronto con pensieri differenti può aiutare ad approfondire la propria conoscenza della verità.

L’uomo si è sempre interrogato sul fine vita, che inevitabilmente costituisce un tema delicato. Negli ultimi anni se ne sta discutendo parecchio, anche sulla base di molti casi di cronaca, che sollecitano ad approfondire argomenti come l’eutanasia, il suicidio assistito, l’accanimento terapeutico e il testamento biologico. In questo contesto, qual è l’obiettivo del “Piccolo lessico del fine vita”, fresco di pubblicazione dalla Pontificia Accademia? Che novità propone?

Questa pubblicazione, innanzitutto, nasce dall’esigenza di definire un lessico. Per ogni termine o questione del fine-vita, il testo dà un chiarimento alla luce delle competenze scientifiche e mediche, del dibattito giuridico, e di una visione di persona e di società. Il chiarimento a livello terminologico è fondamentale per dialogare, superando certi equivoci che nel passato e anche oggi sono fonte di incomprensioni e di conflitti, e per mettere a confronto posizioni anche molti differenti. Questo nell’ottica di superare tante polarizzazioni che sono fonte di conflitto (fra una cosiddetta bioetica cattolica e una laica, fra le posizioni della Chiesa e quelle di un contesto pluralista e democratico…). È interessante vedere come si abbandonino i termini di sacralità e indisponibilità della vita, che tanto hanno fatto discutere nei decenni passati e che sono diventati l’emblema dell’inconciliabilità fra la posizione cattolica (sacralità) e quella laica (qualità). A questo riguardo è preziosa la nozione di “vita” tratteggiata nell’Introduzione. Chiarire e dialogare permette di riconoscere che sul tema del fine-vita sono più le cose che accomunano credenti e non credenti, di quelle che dividono, nella misura in cui si ha a cuore da parte di tutti la cura della persona.
[Tra l’altro il Piccolo lessico è di aiuto a tutti gli uomini e le donne che si interrogano su questi temi per raggiungere un’adeguata comprensione, per farsi un’idea delle questioni che sono in gioco senza lasciarsi ingabbiare da stereotipi]

In secondo luogo, come dicevo, il Piccolo lessico dà un chiarimento del concetto di vita.

Ci spieghi

Il Piccolo lessico esprime questo concetto in modo che venga superata la contrapposizione fra la sacralità e la qualità della vita… (Fornero Giovanni: Indisponibilità e disponibilità della vita).

Il primo punto si riferisce al modo di comprendere la nozione di vita umana, che viene qui trattata senza mai ricorrere alla categoria di sacralità o di indisponibilità. Nella prospettiva cristiana, d’altronde, come ben esplicitato da san Giovanni Paolo II, la chiamata fondamentale dell’uomo “consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio. […] Proprio questa chiamata soprannaturale sottolinea la relatività della vita terrena dell’uomo e della donna. Essa, in verità, non è realtà ‘ultima’, ma ‘penultima’” (EV, n. 2). Il bene della vita va quindi sempre inteso nel quadro del bene integrale della persona, per la cui interpretazione occorre considerare non solo il fatto che esso è ricevuto, poiché ciascuno di noi viene al mondo per iniziativa altrui – comunque si voglia interpretarne l’origine –, ma anche la destinazione ultima a cui siamo orientati. Noi siamo chiamati a decidere liberamente della nostra vita: è il compito che Dio creatore ci assegna affidandoci a noi stessi. Ma liberamente non significa arbitrariamente, quanto piuttosto responsabilmente. Cioè in modo sensato. Per ricorrere alle parole di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13). In un solo versetto ci viene detto che la vita “biologica” non è un idolo assoluto, al quale sacrificare ogni valore relazionale, bensì un’iniziazione all’amore: che nell’amore si riceve, fin dall’origine, e nell’amore si consegna, con la sua finitezza.

La vita biologica non è un assoluto (e questo può sorprendere il lettore “laico”), ma non perché il singolo può deciderne secondo il suo arbitrio, ma perché la persona la scopre come ricevuta da Dio e da custodire nella relazione.

Altro elemento centrale del “Piccolo lessico del fine vita” è il criterio della proporzionalità dei trattamenti

Si. C’è una voce apposita, ma che ritorna in tutte le voci. La proporzionalità chiede di guardare la persona che si avvicina al fine-vita e valutare con lei, in una ponderazione, quello che è meglio, sapendo che ogni scelta può comportare anche alcune conseguenze negative.
Per esempio, sull’eutanasia si afferma: “sarebbe infatti eutanasia omettere o sospendere cure efficaci, appropriate e sostenibili da parte del malato. Sarebbe invece legittimo, anzi doveroso, porre fine a un trattamento (anche di sostegno vitale) che si valuta come sproporzionato” (44-45). Questa distinzione è preziosa e probabilmente qualcuno si stupisce di trovarlo in un testo della Pontificia Accademia per la vita.
Il discernimento va sempre fatto analizzando la singola situazione: non ci sono delle riflessioni svolte a tavolino che poi si applichino a ogni caso.
Sulle questioni controverse (idratazione e nutrizione artificiale, trattamenti di sostegno vitale, necessità di un intervento legislativo…), il Piccolo lessico mette in atto un discernimento prudente che per qualcuno potrebbe sembrare un’apertura indebita che porrebbe su un piano inclinato dalle conseguenze nefaste, come la legalizzazione dell’eutanasia. Si respira nel testo un’attenzione nuova, che mira al dialogo in nome della centralità della persona e che rifugge dalla preoccupata difesa di principi. Si leggono le questioni a partire dal vissuto, immaginando parole e gesti che nascono dal letto di un malato.
Cito semplicemente un passaggio: “Si tratta quindi di proporre a chi soffre parole e toni che trasmettano l’importanza che la sua persona costituisce per l’interlocutore: “se tu muori, per me è una perdita”. Individuare i fili che possono ricomporre una trama è il modo di sperimentare una reciproca appartenenza e di affrontare le scelte difficili che la morte rende non più rinviabili”.

Perché serve una legge sul fine vita?

Una legge recepisce un ethos (la norma di vita, la convinzione e il comportamento pratico dell’uomo e delle società umane, ndr) e lo plasma. C’è bisogno di una legge perché un ethos è cambiato: sono mutate le conoscenze medico-scientifiche, la prassi medica,  il modo di approcciarsi alle scelte (l’importanza data all’autodeterminazione come criterio dominante, se non esclusivo…). Questa nuova situazione fa ritenere le leggi fin qui elaborate come insufficienti.
C’è bisogno che il parlamento legiferi e che non si releghi al giudice il compito di decidere.
C’è la legge 219 del 2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento e ci sono dei pronunciamenti della Corte costituzionale.

Nella maggior parte delle giurisdizioni del mondo l’aiuto intenzionale al suicidio di un’altra persona è reato grave. Non mancano però paesi in cui viene ammesso, in modo isolato (come la Svizzera e diversi stati negli Usa) o insieme all’eutanasia “volontaria” (come Paesi Bassi e Belgio). Anche in Italia il Codice Penale punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio, considerandoli reati (cf. CP 580). Una recente sentenza della Corte costituzionale (cf. CC 2019) ha ribadito questa posizione, sottolineando l’esigenza di proteggere giuridicamente il bene della vita, soprattutto in condizioni di fragilità. Tuttavia, la sentenza riconosce al contempo che l’evoluzione della medicina determina nuove situazioni riguardo al morire e identifica pertanto quattro condizioni in cui esclude la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi”: la persona deve essere “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Nella situazione italiana, per esempio, non si può ignorare che la sentenza della Corte costituzionale sopra citata sollecita il Parlamento a colmare la lacuna legislativa rilevata in questo ambito, per di più in un contesto culturale che spinge, nei Paesi occidentali, verso una deriva eutanasica. In questo quadro, far mancare il proprio apporto alla ricerca di un punto di convergenza tra differenti opinioni rischia, da una parte, di condurre a un esito più permissivo e, dall’altra, di alimentare la spinta a sottrarsi al compito di partecipare alla maturazione di un ethos condiviso. Contribuire a individuare un punto di mediazione accettabile fra posizioni differenti è un modo per favorire un consolidamento della coesione sociale e una più ampia assunzione di responsabilità verso quei punti comuni che sono stati insieme raggiunti.
Questo certamente non significa essere ingenui circa i problemi presenti nella questione, che invitano a vigilare con attenzione. L’esperienza dice che la definizione delle situazioni cliniche considerate necessarie per chiedere l’assistenza per morire, pur inizialmente precisate con chiarezza, si appanna progressivamente. Nei paesi in cui è permessa l’assistenza al suicidio (e l’eutanasia), i dati disponibili – sebbene diversamente interpretati dai sostenitori e dagli oppositori (anche per il modo in cui vengono raccolti) – indicano che la pratica è difficile da quantificare effettivamente e tende via via ad allargarsi. Un esempio di questo slittamento sono le situazioni in cui è presente non una specifica malattia, come pure la legge richiede, ma una condizione di “sofferenza” dovuta al sommarsi di diverse e sfumate disfunzioni. Nel loro insieme, finiscono per consentire l’assistenza a chi intende togliersi la vita (o a farsela togliere): si tratta di circostanze molto frequenti nell’età anziana, che giungono fino a includere condizioni assai generiche, come la “stanchezza di vivere”. Il cedimento che si registra in tali paesi è dovuto a una serie di fattori culturali tra loro collegati, di cui fanno parte linguaggio, legislazioni, pratiche ed emozioni.
Qualcosa di simile avviene anche per quanto riguarda il consenso: la platea delle persone ammesse tende ad ampliarsi, poiché ai pazienti adulti competenti si aggiungono pazienti in cui la capacità decisionale è compromessa, talvolta gravemente. La questione qui sottostante riguarda il modo di intendere la libertà e il suo esprimersi nella decisione con cui si rivendica il suicidio. Una visione astratta dell’autonomia tende a trascurare l’impatto della pressione sociale sulle persone più fragili, che più facilmente si percepiscono inutili o di peso per gli altri. Esse subiscono così un condizionamento che limita la loro libertà, con il paradosso che in nome dell’autodeterminazione si giunge invece a ridurne gli spazi. Anche sul tema dei trattamenti di sostegno vitale si vede una progressiva dilatazione oltre il perimetro dei presidi terapeutici abitualmente considerati tali, come la ventilazione e l’idratazione e nutrizione artificiali.
Il tema del suicidio sollecita comunque una responsabilità collettiva per la prevenzione, che per essere efficace richiede un’attenta analisi delle cause e la ricerca di possibili soluzioni sul piano sociale e culturale. È un impegno che rinvia in ultima istanza alle risorse di senso di cui una comunità dispone, continuamente da rigenerare, per affrontare i momenti critici dell’esistenza e che è compito di tutti alimentare.

È necessario prestare attenzione al fatto che l’etico non è il giuridico: non bisognare pensare di risolvere ogni problema con una legge, né tanto meno di delegare al giudice il compito di decidere.

E la Chiesa accoglie chi ha deciso di ricorrere all’eutanasia o al suicidio assistito?

Traendo spunto da una celebre affermazione di Papa Francesco, che rispondendo in merito all’accoglienza delle persone omosessuali nel mondo della Chiesa disse “Chi sono io per giudicare?”, si può notare che la Chiesa ha maturato una certa prudenza, nell’accostarsi alle persone e alle loro scelte. Nel caso specifico, la Chiesa non emette scomuniche e nemmeno giudizi su chi sceglie di chiedere l’eutanasia o di morire in maniera assistita. Ovviamente, con molto rispetto, esprime una valutazione sull’atto in sé, non rinuncia a fornire criteri per capire se sia una pratica positiva o negativa, però riconosce che nella singola situazione ogni persona decide a partire da un suo vissuto, un suo dramma, spesso segnato da una condizione di estrema solitudine. Non dà, quindi, giudizi sulla persona: mette in atto la medicina della misericordia e della comprensione, e nelle fasi di discernimento invita a riflettere su cosa ci sia in gioco. Il giudizio, infatti, spetta al Signore, che è misericordioso.

 

don Lorenzo Testa

 

Qual è il confine fra il rifiuto dell’eutanasia e dell’accanimento terapeutico? È possibile conciliare questi due principi?

Anche a questo riguardo è importante chiarire i termini della questione. Cosa si intende per eutanasia? Provocare la morte a certe condizioni? Lasciare morire evitando di somministrare i farmaci? E cosa si intende per accanimento terapeutico (che come espressione è una contraddizione)? Fare il possibile per salvare una vita? Mettere in atto un’ostinazione irragionevole? C’è l’esigenza di chiarire ed evitare la polarizzazione secondo cui la Chiesa, con la sua posizione, sosterrebbe l’accanimento, mentre la mentalità odierna sarebbe favorevole all’eutanasia. Nel Piccolo lessico si dà una prospettiva preziosa:

[Il Comitato Nazionale per la Bioetica italiano definisce l’eutanasia come “l’atto con cui un medico o altra persona somministra farmaci su libera richiesta del soggetto consapevole e informato, con lo scopo di provocare intenzionalmente la morte immediata del richiedente […] al fine di togliere la sofferenza” (CNB 2019, n. 2). Nell’Enciclica Evangelium Vitae si dà una definizione più ampia di eutanasia, parlando di “un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore” (Giovanni Paolo II 1995, n. 65)].

La confusione nasce dal fatto che la somministrazione di farmaci letali è sempre eutanasia, mentre lasciar morire può esserlo, ma non necessariamente. Sarebbe infatti eutanasia omettere o sospendere cure efficaci, appropriate e sostenibili da parte del malato. Sarebbe invece legittimo, anzi doveroso, porre fine a un trattamento (anche di sostegno vitale) che si valuta come sproporzionato. L’Enciclica Evangelium vitae include nella definizione di eutanasia anche l’intenzione sottesa all’agire e le circostanze effettive in cui l’azione viene compiuta. Una volta puntualizzati questi elementi, la definizione consente di cogliere con chiarezza le ragioni del giudizio di illiceità, in quanto si tratta di un atto contrario al bene fondamentale della vita e alla “dignità propria e unica della persona” (UNPS 2020, n. 11), che anche la legge di Dio comanda di tutelare e di promuovere. Nel Codice penale italiano non compare il termine eutanasia, che viene compresa nella fattispecie dell’omicidio del consenziente (CP 2024, art. 579). Il riferimento al consenso, alla libera autodeterminazione dell’interessato, è il presupposto di ogni confronto sul tema, essendo pressoché unanimemente escluso che possano essere altri, a partire dallo Stato, a giudicare che alcune vite “non sono degne di essere vissute” e possono dunque essere soppresse (è stato il programma T4 realizzato dal nazismo in Germania, che prevedeva l’uccisione di disabili e malati mentali, a contribuire in modo decisivo alla diffusa diffidenza che circonda il termine).
Le spinte a legalizzare l’eutanasia sollevano comunque obiezioni mediche, culturali e legali, anche a livello del ruolo personale e sociale del medico, garante delle cure e dell’impegno a sostenere la vita dei pazienti. Per molti, un’eventuale legalizzazione dell’eutanasia porterebbe a: indebolimento della percezione sociale del valore della vita; possibilità di tragici abusi; disimpegno pubblico nell’assistenza e nell’accompagnare i morenti; concreta possibilità di scivolare verso forme di eutanasia non volontaria.L’esperienza dei paesi in cui l’eutanasia è legalmente ammessa mostra che – proprio in nome della libertà di autodeterminazione circa le questioni riguardanti la salute, la vita e la corporeità – si può arrivare all’esito paradossale di comprimere la libertà di chi è meno attrezzato a far valere la propria volontà. Può accadere, anche contro le intenzioni di chi la propone, che una legislazione rivolta alla platea, pur ristretta, di pazienti che intendono esplicitamente richiedere l’eutanasia provochi anche una sorta di richiesta indotta da parte di persone che, rese fragili dalla malattia, si sentono di peso per le loro famiglie e per la società.

A che punto bisogna fermarsi? Quando non iniziare alcuni trattamenti? Sono le domande che sorgono per tanti pazienti oncologici o affetti da malattie neurodegenerative, per i quali si parla comunemente di rischio di “accanimento terapeutico”. Tale espressione, anche se ancora molto usata per la sua evocativa sinteticità, è sempre più criticata. L’accostamento dei termini risulta, infatti, internamente contraddittorio, perché indica un eccesso negativo (accanimento) di una pratica positiva (terapia), che cessa di essere tale quando l’uso dei trattamenti non corrisponde più alla logica della cura e diventa nocivo: non si può più dire terapeutico, in quanto non si inscrive più nella giusta misura, ed è quindi doveroso evitarlo.
Si ricorre talvolta a espressioni come “accanimento clinico” (cf. CNB 2020), che però non sembrano risolvere la tensione tra i termini impiegati, poiché anche la clinica, in quanto pratica della medicina al letto del malato, non è un’attività neutrale, ma ha già in sé una connotazione positiva che confligge con ogni atteggiamento di rigida insistenza. In alcuni testi giuridici si parla di “ostinazione irragionevole”: un’espressione che risulta piuttosto ridondante, ma si sta comunque diffondendo nel linguaggio comune. In effetti, formulazioni più adeguate (come “uso sproporzionato dei trattamenti”) sono meno immediate e più laboriose da utilizzare.
L’Enciclica Evangelium Vitae sottolinea che “si può rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita” in quanto “non più adeguati alla reale situazione del malato perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche troppo gravosi per lui e la sua famiglia” (Giovanni Paolo II 1995, n. 65). Nella stessa linea si muove il Codice Deontologico dei Medici, quando afferma che il medico “non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati” (FNOMCEO 2014, art. 16).
La proporzionalità dei trattamenti sarà quindi da valutarsi attraverso il dialogo e l’informazione, nel contesto della relazione di alleanza tra medico e paziente e con i familiari, che talvolta tendono a incoraggiare forme di ostinazione. Il riferimento fondamentale, come sottolinea papa Francesco, è il bene globale/integrale del paziente (cf. Francesco 2017). Dei parametri da considerare, alcuni riguardano i trattamenti stessi (come la loro tipologia, le conoscenze mediche attuali, i loro effetti sullo stato di benessere), altri riguardano il paziente (le sue condizioni psicologiche, i suoi valori ispiratori ed esigenze spirituali), altri ancora importanti responsabilità di bilanciamento, come quelle legate alla capacità di valutare “le spese necessarie e le possibilità di applicazione” rispetto al risultato che ci si può attendere o gli oneri che potrebbero essere “troppo gravi” per la famiglia o la collettività (CDF 1980, IV).
E quando il paziente non è più in grado di esprimersi, possono essere di aiuto la pianificazione condivisa delle cure e le eventuali disposizioni anticipate (DAT). Lottare per vincere la malattia e prolungare la vita è un principio fondamentale della medicina, che però non è onnipotente e deve confrontarsi con i propri limiti e la condizione fragile e mortale dell’uomo. Non tutto ciò che offre la medicina va sempre e comunque impiegato. Quando non si può guarire, è importante continuare a curare (come si impegnano a fare le cure palliative) e ad accompagnare, anche quando si giunge alla decisione di sospendere o non attivare trattamenti ritenuti sproporzionati.

Le “disposizioni anticipate di trattamento” vengono rilanciate dalla Pontificia Accademia. In che termini?

Il ruolo che il paziente riveste nella relazione con il medico è divenuto progressivamente più rilevante negli ultimi decenni. Questo nuovo equilibrio è peraltro il riflesso in ambito medico di una dinamica socio-culturale più ampia, caratterizzata da una crescente importanza attribuita all’autonomia delle persone. Mentre la tradizione ippocratica considerava il medico come unico detentore del sapere, anche nello stabilire quale fosse il bene del paziente, in tempi recenti si è riconosciuto che alla persona malata va attribuito un peso decisivo nelle scelte cliniche. La responsabilizzazione del paziente viene così considerata una parte della relazione di cura, in un clima di fiducia e di trasparenza che favorisca il cammino della condivisione delle scelte, pur tenendo conto della diversità dei ruoli. È quanto intende promuovere la pratica del consenso informato. La materia è stata recentemente regolamentata in Italia (cf. LEGGE 2017).
In caso di malattie già in corso, soprattutto quando si tratta di patologie croniche ingravescenti, si può prevedere una pianificazione condivisa (anticipata) delle cure: vengono prefigurate situazioni che possono presentarsi e concordate le decisioni da prendersi qualora il paziente non fosse più in grado di esprimersi.
Alla stessa esigenza vengono incontro le DAT. Si tratta di un documento nel quale la persona esprime le proprie volontà in ordine ai trattamenti sanitari da attivare, non attivare o sospendere qualora una futura malattia la privasse della capacità di prendere le necessarie decisioni. Questa volontà è di solito espressa quando la persona non è malata (cf. art. 4) e senza essere direttamente coinvolta in una relazione di cura, pur essendo consigliabile la consultazione con un medico di propria fiducia. Del resto sarebbe anche auspicabile che su queste materie ci fosse un cammino di preparazione, che può trovare un cotesto favorevole anche nell’accompagnamento spirituale o nel dialogo con il proprio parroco.
Le DAT permettono di vedere riconosciute le proprie preferenze, in modo che l’équipe curante possa anche definire in modo più preciso quale sia l’effettivo beneficio per il paziente all’interno del quadro clinico oggettivo, del quale non è evidentemente possibile prevedere in anticipo tutti i dettagli e le caratteristiche specifiche. Il loro rilievo riceve una migliore configurazione se posto in continuità con il consenso informato come prassi di condivisione del processo terapeutico, che integra l’autonomia decisionale del paziente con l’impegno del medico a definire la terapia appropriata (cf. art. 1, comma 2). Nella regolamentazione giuridica è generalmente anche prevista la possibilità (ma non l’obbligo) di nominare un “fiduciario”. Il suo compito è di prendere le decisioni che si rendono necessarie, in dialogo con i medici, eventualmente adattando le indicazioni presenti nelle DAT alle reali circostanze cliniche. Occorre quindi che egli abbia non tanto competenze specifiche in medicina, quanto piuttosto familiarità con il punto di vista della persona che lo designa. Per questo è opportuno che chi è nominato come fiduciario partecipi al processo di elaborazione e di stesura del documento.
Le DAT non sono prive di ombre. Anzitutto, è problematico esprimersi astrattamente su una situazione di cui non si ha esperienza diretta: vivere la malattia in prima persona è molto diverso dall’immaginarla sulla base di quanto si capisce e si vede negli altri, tanto più quando le spiegazioni tecnico-scientifiche sono complesse e difficili da comprendere. Inoltre, alcuni formulari predisposti per le dichiarazioni utilizzano termini ambigui e generici, non facilmente riferibili alle condizioni concrete. Il medico, infine, potrebbe trovarsi di fronte al rifiuto di un trattamento che egli considera del tutto appropriato e magari salvavita, senza la possibilità di dialogo diretto con il paziente.
Nonostante questi limiti, tuttavia, rimane il fatto che le DAT costituiscono il riferimento obbligato di valutazione, in caso di definitiva incapacità decisionale. Il loro valore non può ritenersi meramente orientativo: “il medico è tenuto al loro rispetto” e può disattenderle, in tutto o in parte e in accordo con il fiduciario, solo “qualora esse appaiano palesemente incongrue e non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita” (art. 4, comma 5). In appendice il Piccolo lessico propone un possibile modulo, che può aiutare a definire quali siano e in che modo esprimere le disposizioni di trattamento.

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