Bergamo. Forse quel 13 agosto 2019 Elena Casetto non appiccò l’incendio nel reparto di psichiatria con l’intento di togliersi la vita.
“La nostra deduzione è che possa avere utilizzato l’accendino (a quanto pare nascosto nelle parti intime, ndr) per liberarsi dai cinghiaggi” che la contenevano a letto, lasciandole però un margine di movimento. “A nostro avviso il suo intento era quello”, ribadisce Andrea Foggetti, 54 anni, responsabile del Nucleo Investigativo Antincendi (Nia), chiamato a testimoniare nel processo a carico di A.B., 32 anni di Lissone, ed E.G., 31enne di Paderno d’Ugnano, i due addetti della squadra antincendio all’epoca dipendenti della società che gestiva il servizio all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo. Unici imputati, secondo il pm Letizia Ruggeri il loro intervento fu tutt’altro che da manuale: né scrupoloso, né tantomeno tempestivo. L’accusa nei loro confronti è omicidio colposo.
Giovedì mattina, 30 marzo, l’ispettore del Nia ha descritto con dovizia di particolari la genesi dell’incendio, basandosi su quanto emerso nei sopralluoghi del 14 e 19 agosto. Al giudice Laura Garufi ha spiegato che la stanza, quasi priva di arredamento e oggetti che potevano prendere fuoco (c’erano due letti, un comodino e un armadio) presentava “un livello di distruzione importante”. Il fumo e il calore avevano fatto collassare il controsoffitto e rotto i tubi dell’ossigeno, creando un’atmosfera definita appunto “sovraossigenata”, favorevole alla propagazione delle fiamme. “Erano bruciate persino le intelaiature delle finestre in alluminio, che normalmente fonde a 660 gradi”, osserva Foggetti riferendosi al cosiddetto ‘flashover‘, fenomeno che si verifica quando i gas di combustione raggiungono in una stanza i 500-600 °C. In pratica, l’intensità del fuoco è così grande che in questa fase provoca l’accensione di tutti i materiali combustibili.
Per ricostruire il più fedelmente possibile l’incendio, il 27 agosto l’ospedale mise a disposizione della Procura una stanza simile a quella dov’era ricoverata la vittima, al terzo piano della torre 7. L’obiettivo era appunto replicare quanto successo, mantenendo però tutto sotto controllo (la differenza sostanziale tra la simulazione e l’evento reale è che nella prima non si è arrivati alla condizione di sovraossigenazione).
Le fiamme, partite dal letto, avrebbero subito intaccato le lenzuola e nel giro di pochi minuti il materasso, per quanto in regolare possesso della certificazione 1IM che attesta un “basso grado di reazione al fuoco”. “Dopo quattro minuti la fiamma sul letto era importante e l’aria irrespirabile – ha chiarito in aula Foggetti -. Tra innesco e spegnimento delle fiamme, la simulazione non è durata più di cinque minuti”. Ed è anche su questo aspetto che, con ogni probabilità, insisterà la difesa degli imputati. Se Elena Casetto è morta in un ristretto lasso di tempo, a causa delle ustioni e delle inalazioni di fumo, gli addetti dell’antincendio potevano salvarla? Altra domanda al momento senza risposta: perché la giovane aveva un accendino?
Quel che è certo, è che il mal di vivere la stava tormentando da tempo. Il 31 luglio 2019 si trovava nei pressi di un cavalcavia a Osio Sopra, paese dove abitava. “Stava danneggiando le recinzioni per introdursi in autostrada”, ha ricostruito Nicola Montagna, maresciallo dei carabinieri intervenuto quel giorno. “Era scossa, molto provata fisicamente – ha ricordato in aula -. Disse di avere litigato con la madre per delle chiavi, non voleva tornare a casa e in caserma diede il suo assenso a essere ricoverata”. Venne portata in un istituto di psichiatria a Gavardo, nel Bresciano, dove restò dall’1 all’8 agosto prima di essere trasferita a Bergamo. Cinque giorni dopo, la tragica e disperata fine.
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