“Quando manca una donna è come una casa senza tetto”.
Barbara Manzoni, direttrice e rappresentante legale di quattro RSA in Bergamasca e presidentessa dell’associazione San Giuseppe (l’organizzazione che fa capo alla Diocesi di Bergamo e che riunisce una trentina di residenze sanitarie assistenziali di ispirazione cattolica sparse su tutto il territorio provinciale, con un totale di 3mila posti letto) inizia a descrivere così il lavoro delle “sue” donne nelle diverse case di cura che dirige.
Sono circa 250mila le donne che lavorano per l’associazione San Giuseppe ed è a queste eroine che la dottoressa Manzoni ha voluto dedicare la giornata della donna.
“Eroine sempre un po’ nell’ombra, però – commenta Manzoni – perché le lavoratrici nelle RSA con tutte le loro professionalità (dalle addette alle pulizie alle dottoresse) non sono mai state celebrate sui giornali come le loro colleghe eroine in ospedale. Il mondo dei luoghi di cura e di residenza per anziani è rimasto sempre invisibile per tutta la pandemia, abbandonati dalle istituzioni, come se si volesse mettere da parte tutto ciò che era ‘vecchio’. Addirittura, in alcuni momenti queste donne al lavoro sono state viste come dei mostri che hanno fatto morire gli anziani. Mai nessuno le ha considerate, mostrando, invece, come sono andate le cose”.
La tragedia umana dei momenti più acuti della pandemia, infatti, dietro alle mura delle RSA è stata la stessa che negli ospedali solo che è passata in sordina, relegando all’invisibilità il prezioso lavoro di cura e di attenzione di tutti i suoi lavoratori e di tutte le sue lavoratrici nei confronti degli ospiti dei centri.
“Ricordo giorni tragici, in cui mi sentivo così sola e abbandonata dalle istituzioni. Come in quei giorni che sono venuti a portarci via i dispositivi di protezione individuale perché servivano agli ospedali”, continua Manzoni.
“In quei mesi tutti hanno fatto la loro parte, ma il contributo più prezioso, a parer mio, senza nulla togliere ai nostri uomini, è stato dato proprio dalle donne. In loro, infatti, ho visto un grande spirito d’adattamento che, a volte, manca nei maschi. In particolare ciò che li distingue nei momenti di maggiore emergenza è la propensione alla speranza: mai, mai, anche nei giorni più difficili in cui la morte e la malattia erano diventati i nostri compagni, ho visto vacillare queste straordinarie donne. E, sempre, mi dicevano ‘coraggio, dottoressa, ce la faremo’. A differenza degli uomini che facevano fatica a guardare il bicchiere mezzo pieno”, continua la dottoressa.
Sono donne, la maggior parte mamme, diverse per età, cultura, provenienza, ma tutte accomunate dalla capacità di portare cura, prossimità, assistenza e un sorriso, nonostante le difficoltà personali e famigliari di ognuna di loro.
“Quello che mi ha colpito è che ognuna di loro dopo doppi turni sfiancanti e logoranti, tornava a casa dalla propria famiglia per essere anche lì un pilastro. Questo è quello che più di tutto mi commuove e mi rende orgogliosa di ognuna di loro: sono donne che hanno sostenuto un sistema sanitario fondamentale, senza riflettori ma restando nell’ombra, e che sempre, a lavoro e a casa sono rimaste il perno centrale di moltissime vite”.
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