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Storia delle epidemie (10)

Lo “scambio colombiano” e le malattie dopo la scoperta dell’America

In seguito alla scoperta dell’America si sviluppò quella che oggi, con un termine moderno, chiamiamo “guerra batteriologica”, che fu la causa decisiva della “vittoria” europea. Cristoforo Colombo e i suoi successori la fecero senza saperlo.

In seguito alla scoperta dell’America si sviluppò quella che oggi, con un termine moderno, chiamiamo “guerra batteriologica”, che fu la causa decisiva della “vittoria” europea. Cristoforo Colombo e i suoi successori la fecero senza saperlo.

In Europa esistevano malattie che potevano essere mortali a quei tempi: si moriva di vaiolo, malaria, epatite, di morbillo. Però chi non moriva, la maggioranza, sviluppava delle immunità naturali, anche prima che venissero scoperti i vaccini. Le stesse malattie non esistevano in America.

I primi esploratori, conquistatori, colonizzatori arrivati dall’Europa erano spesso portatori dei germi del vaiolo, dell’epatite, del morbillo. Oppure trasportavano i vettori delle malattie europee sotto forma di animali o insetti o piante nelle stive delle loro navi. Contagiavano le popolazioni indigene, che non avevano protezioni immunitarie, non avevano resistenze naturali, non riuscivano a produrre anticorpi.

Una malattia grave come il vaiolo in un’epidemia in Europa poteva uccidere il 10% della popolazione (che è già tanto); quando si trasmetteva a una popolazione indigena poteva arrivare a sterminarne il 90%. Questo spiega anche la falsa convinzione che l’America fosse quasi deserta, disabitata. In realtà alcune zone d’America nella fase del massimo splendore delle civiltà precolombiane avevano avuto forse più abitanti dell’Europa.

Le malattie esantematiche erano quindi del tutto sconosciute e la loro introduzione avrebbe di fatto avuto un effetto devastante per le popolazioni non immunizzate. Prima della reciproca scoperta esistevano differenze di rilievo tra il Vecchio e il Nuovo Mondo nell’ambito della salute e della malattia. L’opinione corrente era che le comunità amerindie non venissero colpite in modo grave dalle malattie, e che nell’America precolombiana vi fosse una sorta di verginità epidemiologica; di fatto poi contraddetta dai fatti, dalle tradizioni scritte e orali, da scoperte paleopatologiche e dal fatto che in nessuna parte del continente americano o del mondo esistano comunità cosiddette primitive che siano così sane come alcuni credono.

Un aspetto da considerare, per meglio comprendere questa narrazione, è la densità della popolazione amerindia. Le prime stime erano estremamente basse, dai 50 agli 80 milioni di individui, ma molti storici si rifiutarono di accettare questa valutazione. Da allora, comunque, le stime sono costantemente aumentate. Al momento, sono largamente accettate le seguenti considerazioni: nel XV secolo, la popolazione americana non si discostava numericamente da quella europea, che era stimata intorno a 100- 120 milioni. In seguito, dal XVI secolo, l’Europa ha attraversato un periodo di crescita demografica, da attribuirsi in parte proprio all’importazione di prodotti dalle terre conquistate. Di certo, l’ecatombe delle epidemie ne fece sparire la maggioranza. Anche se i dati per le popolazioni precolombiane delle Americhe sono incerti, si stima che le malattie indotte causarono perdite nelle stesse popolazioni, negli anni tra il 1500 e il 1650, tra il 50 e il 90%.

La popolazione di Hispaniola, che contava 8 milioni di abitanti allo sbarco di Colombo nel 1492, secondo i principali studiosi del campo, nel 1535 era stata ridotta a zero da epidemie e massacri. Lo stesso destino toccò ai nativi delle terre del mar Caraibico: i predatori spagnoli conquistarono e imprigionarono i popoli che vivevano nel resto del Messico e negli odierni stati di Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Costa Rica.

In pochi anni un’intera civiltà di milioni di persone, che da migliaia di anni vivevano in quelle terre, era stata sterminata. Mentre il bellicoso impero degli Aztechi fu raso al suolo, il cappellano e biografo di Cortés, Francisco López de Gómara, scrisse che “si diffuse da un indiano all’altro e, poiché erano così numerosi e mangiavano e dormivano insieme, contagiò rapidamente tutto il Paese. Molte case rimasero completamente disabitate: poiché era loro abitudine farsi il bagno per curare ogni disturbo, fecero lo stesso con il vaiolo e furono stroncati dalla malattia.” E prosegue: “…E poi venne la carestia, non a causa della mancanza di pane, ma di farina, infatti le donne non facevano nient’altro che macinare il mais tra due pietre e cuocerlo. Poi le donne si ammalarono di vaiolo, il pane finì e molti morirono di fame. I cadaveri puzzavano in modo così disgustoso che nessuno li seppelliva; le strade erano piene; si dice che gli ufficiali, per rimediare a questa situazione, abbiano demolito le case per coprire i cadaveri”.

Ma quello che può essere considerato il più grande genocidio della storia dell’umanità, e sebbene sia difficile superare l’arroganza dei vincitori o il rancore dei vinti, portò anche a una sorprendente mutua scoperta, come vedremo. Per quanto sbilanciata possa essere, se si considera che l’Europa, per secoli, ha sottovalutato le culture indigene del Nuovo Mondo, essa può servire a sottolineare che dei contributi, sono stati apportati da entrambe le parti. Per quanto il primo concetto, quello del genocidio, sia stato, giustamente, quello da sempre più evidenziato.

Per affrontare un’analisi che superi lo stampo eurocentrico della ricerca storica è necessario non limitarsi a raccontare le “nostre” conquiste, ignorando l’altra metà: scoprendo e colonizzando le Americhe, noi fummo anche conquistati. Insieme ai conquistadores spagnoli arrivarono sulle coste americane animali, vegetali e germi che si sarebbero rivelati agenti fondamentali per la distruzione dell’ecosistema e delle società autoctone. Il contatto tra le terre affollate di uomini e di animali addomesticati del Vecchio Mondo e le terre poco abitate del Nuovo, con popolazioni segregate geneticamente da un lungo isolamento e con una scarsa esposizione agli agenti patogeni, si rivelò fatale per i secondi ed estremamente proficuo per i primi. Ma lo “Scambio colombiano” era qualcosa di più del transito tra le due sponde dell’Atlantico di agenti patogeni: la biologia poteva spiegare le ragioni del successo dell’espansione europea, del tracollo delle civiltà precolombiane e, infine, lo stesso assetto attuale degli ecosistemi.

Dalle loro piante, dal loro cibo, dal loro tabacco, dalle loro malattie, lo scambio di sementi e di germi non fu a senso unico. La manipolazione genetica avvenne su vastissima scala, per lo più inconsapevole, con risultati imprevisti da ambo i lati. Una tecnologia dove i nativi americani non erano affatto arretrati, era l’agricoltura. Furono capaci di “addomesticare” un cereale molto nutriente, che non a caso ha conquistato il mondo intero: il mais, che noi italiani chiamiamo anche granoturco. L’elenco degli alimenti che noi europei abbiamo importato dalle civiltà precolombiane, è molto lungo, dal pomodoro alla patata al cioccolato. C’è pure il tabacco che è una storia a parte, e non delle minori.

Tra le malattie che ci hanno contagiato: la sifilide, e un flagello vegetale che è la peronospora della patata (indirettamente fece stragi di umani: vedi la grande carestia delle patate nell’Irlanda dell’Ottocento). Questa è l’altra metà della scoperta dell’America, dove i colonizzatori furono colonizzati. È quello che è stato chiamato lo Scambio Colombiano, uno degli effetti più durevoli dello sbarco a Hispaniola nel 1492.

Per capire meglio di cosa si tratti, occorre andare indietro nel tempo fino a 250.000 anni fa, quando i continenti erano quasi completamente attaccati fra loro e le terre emerse formavano un’entità unica che è stata chiamata Pangea. Poi delle forze geologiche hanno smembrato quell’insieme. Con la deriva dei continenti hanno cominciato a prendere forma l’Eurasia e le Americhe.

La loro separazione è durata abbastanza a lungo da dare origine a biosfere quasi totalmente separate e non comunicanti, con specie di piante e di animali (compresi i piccolissimi organismi viventi come i germi) che esistevano in un continente ma non nell’altro.

Separati dagli oceani, questi ecosistemi ebbero pochissimi scambi tra di loro, per lunga parte della storia umana. I viaggi di Colombo e poi dei suoi emuli, seguiti dai conquistadores, per gli studiosi di scienze naturali “ricostruirono Pangea”, riunificando le biosfere separate. È una trasformazione di tale importanza, che i biologi la considerano la più importante svolta nella storia della vita terrestre dopo l’estinzione dei dinosauri. Molto più delle storie di re e regine, papi e chiese, generali e battaglie, questa trasformazione epocale ha generato il mondo moderno quale lo conosciamo.

Gli storici, ovviamente sono di un altro parere, ma è indubbio che accadde un cortocircuito tremendo all’interno dello Scambio Colombiano, che aprì un capitolo totalmente nuovo, oltre a quello importantissimo e sconosciuto ai più descritto poc’anzi. Dopo che le malattie importate dagli europei avevano sterminando le popolazioni indigene manca manodopera.

Per i nuovi business trainanti, le piantagioni di tabacco e canna da zucchero, spunta la soluzione dello schiavismo. Tra il XVI secolo e il 1840, quasi dodici milioni di africani son ostati portati nelle Americhe in stato di schiavitù. La dimensione imponente della tratta dei neri fa sì che per un bel pezzo di storia le Americhe vengono “africanizzate” molto più di quanto vengano “europeizzate”. È solo nel boom industriale dell’Ottocento che soprattutto l’America settentrionale comincerà a importare grandi masse di lavoratori immigrati dall’Europa. È a causa dell’immigrazione ottocentesca che l’America diventa più bianca, e la nostra memoria storica si appiattisce su quell’episodio più recente, facendoci dimenticare tutta la storia indo-africana o afro-indiana precedente.

In conclusione, in questo capitolo abbiamo visto un emblematico esempio di come le epidemie siano strettamente correlate al contesto sociodemografico, economico, ecologico e biologico.

Riflettere sulla storia delle epidemie, è quindi un formidabile ambito di interesse storico e di formazione culturale, utile anche per diffondere una visione più realistica del mondo passato e sulle connessioni fra un evento e un altro. E stimolare un pensiero critico sul presente.

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