Antonio Nastasio, ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza, ha vissuto in prima persona l’assistenza ai carcerati dagli Anni Settanta fino ai giorni nostri. Il suo sguardo e la sua riflessione sulle rivolte in carcere di oggi.
Il continuo evolversi in negativo della pandemia, che tende ad accentuarsi ora nelle grandi città precedentemente risparmiate, porta il governo a forti ripensamenti o a conferme di quanto la prima avvisaglia aveva insegnato; si cerca ora di recuperare il tempo perduto, con alcune iniziative mai attuate perché non pensate o scartate a priori.
Parlare di Covid-19 in carcere, vuol dire considerare malattia (Salute) e punizione (Giudizio), due diritti voluti dalla legge sempre in bilico tra giusto e ingiusto, tra certezza del diritto e compassionevole azione del perdonare.
Ma se un diritto si bilancia con un altro diritto di eguale natura e forza, come comportarsi quando questi due diritti entrano in conflitto tra loro? Infatti ora che siamo di fronte all’esplosione dei contagi in carcere, la sanità e la giustizia, in questo caso, pensano un ricorso alla compassione più ampia utilizzando i benefici regi: l’indulto e l’amnistia, che nella situazione attuale appaiono le soluzioni più immediate e quelle giuridicamente più corrette, ma quali luci ed ombre portano con loro?
Se nella prima trance dell’epidemia, che peraltro aveva risparmiato le grandi città, si era pensato a diverse scarcerazioni, occorre ora quel coraggio mancato nell’accettare una verità: l’impossibilità da parte del dipartimento di amministrazione penitenziaria (DAP), di essere unico gestore del contenimento delle persone colpite da provvedimenti giudiziari che includono la carcerazione.
Il tentativo precedente di offrire un corrispettivo per un posto letto a chi era privo di alternative, od una famiglia disponibile all’accoglienza, poteva essere valida per i piccoli numeri; non lo è certo in caso di concessione dell’indulto dove i numeri saranno elevatissimi e riguarderanno proprio quelle persone che non possono usufruire di benefici di legge in vigore, in quanto mancano gli elementi soggettivi come la casa o l’accoglienza esterna.
In diversi miei interventi, mi appellavo, vanamente; per il recupero di strutture dismesse quali ex ospedali e ex caserme, che potevano essere un serbatoio valido al contenimento di parte di che è detenuto in attesa si attuino gli elementi soggettivi per una vita libera.
Il Coronavirus, come va a manifestarsi ora, fa apparire irrisori gli interventi passati sui detenuti, che peraltro portarono a discusse scarcerazioni ed all’uso della forza per arginare alcune rivolte scaturite.
Ebbene, a fronte dello scenario nazionale, il DAP non trova altro di meglio che spostare il personale di Polizia Penitenza in altri uffici, allegato 1 (1)con compiti non propri, o che vanno a sovrapporsi ad attività di altri Enti dello Stato. È a tutti gli effetti un nuovo servizio, che non trova giustificazioni in quanto attività, attuata fuori della previsione della Legge, e già assegnato al servizio sociale statuale. Va solo a promuovere nuovi posti lavoro per la polizia penitenziaria con un notevole costo. Peraltro andando a replicare altra attività non ha una giustificazione per nuovi titolo di spesa.
La stessa U.E. con propria raccomandazione del 2006 Allegato 2 (1) invitava i paesi della unione affinché gli istituti carcerari fossero posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed enti locali, e non dall’essere custoditi da esercito, polizia e dai servizi di indagine penale.
Se questo è un monito per il contesto detentivo, tanto più vale per il non carcerario che sono le misure alternativa al carcere, che non prevedono detenzione.
Altro che salute e giurisprudenza: e parti in causa ora cambiano; non più detenuti e Polizia Penitenziaria, ma Polizia Penitenziaria e vertici del DAP, un Dipartimento che induce a discordia e pone pretese sempre più aggressive, poste dell’apparato sindacale, stabilizzato nel proporsi in modo spasmodico e tornacontista, nella ricerca di una dichiarata necessità di “visibilità” del Corpo.
Ma non è ancora finita! Ecco sopraggiungere la smania di potere e di affermarsi anche dove la Legge non prevede, al solo scopo di assicurare delle pretese di scopo, forzando lo specifico mandato istituzionale, perché le funzioni che ricoprono non corrisponde più alle speranze-esigenze dei singoli incaricati; proprio essi allora, propongono alternative che negano l’ assolvimento dello specifico ruolo funzionale, attraverso progetti di ampliamento di potere della categoria, anche a scapito di un impegno personale per riaffermare le competenze e i ruoli all’interno dell’istituto.
Di che cosa sto parlando?
Del fatto che il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP) non possa e debba più detenere il monopolio esclusivo della gestione della esecuzione penale, e della limitazione delle libertà personale a causa di reati, ma debba condividerla, specie per soggetti non pericolosi, anziani e malati, con altri attori affini, snellendosi nelle funzioni e nei numeri come fece anni fa il Ministero del Lavoro che divise alcune sue funzioni, cedendole all’allora Provincie e trattenendo presso di se quello del controllo, mentre ora fa l’opposto, inglobando compiti dati ad altre Istituzioni, Carabinieri e Polizia di Stato, Enti Locali e Privato Sociale o figure professionali.
Appare superato (ammesso esserci arrivati) l’asserto “rinnovarsi in agilità ed efficienza”, in quanto il fattore nuovo ora è dato dal fare tutto, ma non in carcere e per il carcere, ma il fare in altro posto che non sia il carcere.
Lo vogliono gli operatori con lo stare fuori il carcere; lo vogliono i detenuti, con lo stare a casa; lo vogliono le persone di potere con lo slogan “abbattiamo le carceri”; lo vogliono i familiari dei detenuti e le strutture e le organizzazioni che operano nel settore della restrizione della libertà personale, volontà inaccettabile perché non attua il mandato costituzionale del reinserimento.
Ecco, a mio parere, i sei punti di maggior criticità, che giustificano le mie riflessioni precedenti:
1. La Polizia Penitenziaria che non riconosce come primario il ruolo di essere operatore interno al carcere, in particolare alla sezione, per la scarsa considerazione che riceve. Chi opera in sezione, è considerato un reietto, poco valido, pertanto si rifugia in attività succedanee come quelle della segreteria o in altre Istituzioni, replicandone le mansioni, dove viene considerato e gratificato.
2. Gli operatori della esecuzione penale esterna, Ente istituito per attuare il mandato costituzionale del reinserimento, evitando o limitando la detenzione e la non rottura col mondo esterno. Questo ora viene identificato come una delle possibilità alla Polizia Penitenzia per lasciare il carcere o dare vita ad un nuovo dipartimento solo di Polizia Penitenziaria, soluzione considerata complessa, inutile, fortemente dispendiosa.
3. La classe dirigente, sia di Magistratura che civile presente nel DAP, oggi più che mai numericamente inferiore a quanto stabilito da organigramma, ma che detiene in sé la quasi totalità del potere. Peggio non appare disponibile ad riorganizzarsi, assorbendo direttivi di altre categorie per ricoprire i posti vacanti, come i direttivi di Polizia Penitenziaria.
4. I nuovi mentori che negano la presenza del carcere, perché esso non deve esistere, dimenticando che le carceri, tra le altre funzioni, hanno quelle di preservare il presunto colpevole dalla giustizia sommaria della folla inferocita.
5. L’Ente Locale e il privato sociale, forza riconosciute dall’Ordinamento come parti importanti nello sviluppo di una reclusione meno afflittiva, per cercare soluzioni alternative al carcere, per affermare proprie specifiche identità e indipendenze, senza ricorrere alla famiglia, contenitore universale per ogni fatto non funzionale alla società. Penso che nuove carceri a sicurezza attenuta, recuperando strutture pubbliche dismesse, peraltro già previsto in una passata Legge di Bilancio, sarebbero un bellissimo nuovo progetto, che va incontro sia a chi è detenuto che alla società che chiede più carcere; parlo di un carcere altro, pieno di iniziative e attenzione, al quale il privato sociale specializzato, o personale dell’Amministrazione che opti per questo tipo di detenzione, saprà dare quell’impronta che oggi è mancata, attuando l’offerta di servizi che vuole Ordinamento Penitenziario.
6. L’operazione dell’inserimento della Polizia penitenziaria nell’ambito degli Uffici locali di esecuzione penale esterna (Uepe) muove da una serie di non corrette ed anche errate impostazioni della materia che sembra doveroso evidenziare prima che si proceda, anche se per ora sperimentalmente, su un percorso pericoloso e che può divenire irreversibile. Non sarebbe meglio parlare di Esecuzione della pena da giurisdizionale ad amministrativa lasciando il ricorso alla magistratura solo per gli appelli ai provvedimenti amministrativi?
Speriamo che questa nuova emergenza sanitaria e sociale ricordi a tutti che l’ordinamento penitenziario prevedeva che l’amministrazione centrale venisse coadiuvata dall’Ente locale e dal privato sociale, senza dover ricorrere a benefici di bontà del re, come indulto e amnistia, a cui non si è particolarmente legati per gli effetti negativi che hanno in se il “mettere fuori” persone senza alloggio e sostegno economico. Se oggi, per la mancata previsione e l’espandersi del contagio, divengono le uniche soluzioni giuridicamente auspicabili, direi….W il re e W il Dap!
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