L’Organizzazione mondiale della Sanità ha dichiarato “pandemia” l’emergenza Coronavirus.
L’infezione, scoppiata in Cina, precisamente nella città di Wuhan, alla fine dello scorso mese di dicembre, si è diffusa in oltre novanta Paesi, per un bilancio totale, aggiornato ad oggi – 11 marzo – di 4.350 morti, di cui oltre 600 anche in Italia.
Ciò significa che da questo momento in poi i singoli stati devono fare un passo indietro ed eseguire i piani dell’Oms per impedire che il nuovo virus dilaghi ulteriormente.
Gli esperti potranno richiedere una serie di misure anche drastiche, come lo stop alle attività produttive e i limiti alla circolazione anche via terra.
Provvedimenti che potrebbero essere applicati in primis proprio nel nostro Paese, il terzo per numero di contagi dopo la Cina e la Corea del Sud.
L’epidemia è diffusa in ogni continente a eccezione dell’Antartide. I paesi colpiti sono 105 su un totale di 180. Ora l’Oms avrà la facoltà di emanare direttive e inviare équipe nelle nazioni più colpite (nel rispetto della sovranità), come ha già fatto in Cina, Italia e Iran. La dichiarazione di pandemia spetta al direttore generale dell’Oms. Non esistono criteri oggettivi. Nel 2009 l’allora direttrice Margaret Chan fu accusata di averla dichiarata troppo presto, di fronte a una malattia (l’influenza suina) considerata poco grave.
Oggi il direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aspettato fino all’ultimo, conscio degli effetti psicologici, più che pratici di una mossa simile. A convincerlo è stata la curva crescente non più in un numero limitato di paesi (Cina fino a qualche giorno fa, oggi Italia, Iran e Corea del Sud), ma nell’intera Europa e in un’America che – tra dichiarazioni al limite dell’irresponsabile del presidente Donald Trump e difficoltà tecniche nel distribuire ed effettuare i test – sembra una delle meno preparate ad affrontare un’eventuale ondata di contagi.
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