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L'analisi

Tante battute e poca sostanza nel dibattito tra Trump e Harris

Trump è apparso sconclusionato e incapace, come quasi sempre, di un discorso organico e lineare; Harris ha usato gran parte del tempo del dibattito per ricordare come Trump sia pericoloso, instabile e incompetente, come se l’argomento non fosse già noto in un dibattito tanto fortemente polarizzato sulla sua figura da otto anni a questa parte

L’ex presidente Donald Trump non si è certo trattenuto durante l’atteso dibattito televisivo con la sua sfidante, l’attuale vicepresidente Kamala Harris.

L’esponente repubblicano è noto per le sue uscite a dir poco colorite, ma questa volta si è superato. Nel corso del dibattito, ospitato dal canale televisivo ABC, Trump ha riecheggiato la diceria infondata secondo cui gli immigrati haitiani mangerebbero i cani e i gatti degli abitanti della città di Springfield, nello stato dell’Ohio; ha asserito che oggi negli USA sarebbe possibile abortire i feti al nono mese di gravidanza o uccidere selettivamente i neonati subito dopo il parto; ha sostenuto che l’amministrazione democratica vorrebbe compiere “operazioni transgender” contro gli “immigrati illegali” detenuti nelle carceri federali, fondendo così in un’unica frase tutte le fissazioni e i cavalli di battaglia della destra radicale americana. L’ex presidente ha poi rivendicato la bontà della sua condotta durante gli eventi del 6 gennaio 2021, quando alcuni gruppi di suoi sostenitori attaccarono Capitol Hill a Washington.

Insomma: i sostenitori di Kamala Harris hanno avuto gioco facile nell’evidenziare le cadute di stile e le uscite francamente insostenibili del candidato repubblicano, che sono parse una strizzata d’occhio ai settori più estremi della sua base elettorale. Dopo il disastro mediatico del presidente uscente Joe Biden nel precedente televisivo, non era difficile per Harris fare una figura migliore.

La candidata democratica ha conservato una postura professorale, mostrando un contegno di superiorità alternata a sarcastica ilarità nei riguardi del contendente. In molti punti ha usato l’espressione “bisogna capire che”, mantenendo un tono ampiamente didattico e didascalico.

Molti giornali e commentatori vicini all’area democratica hanno decretato la vittoria dialettica della vicepresidente. Eppure, la sensazione è che Harris abbia forse perso un’opportunità importante in un dibattito concepito per convincere l’elettorato indeciso, soprattutto nello stato della Pennsylvania, in cui si è svolto il dibattito nella notte tra martedì e mercoledì. È uno degli stati in bilico, in cui poche decine di migliaia di voti possono decidere l’assegnazione dei “grandi elettori” nel collegio elettorale chiamato a scegliere il prossimo (o la prossima) presidente degli USA nel quadriennio fino al 2028. Conviene infatti ricordare che, per l’elezione, non conta il totale dei voti raccolti in tutti gli USA, ma il numero di grandi elettori assegnati al candidato vincente in ciascuno stato. Poche migliaia di voti di scarto in Pennsylvania o nel Michigan possano fare la differenza molto più di milioni di voti negli stati costieri come New York e California.

Harris ha preso una posizione netta (per quanto velleitaria e irrealistica) sul tema dell’interruzione di gravidanza: un tema molto sentito dopo che, pochi mesi fa, la Corte Suprema a trazione conservatrice ha cassato la nota sentenza “Roe v Wade”, di fatto rimandando ai singoli stati la competenza totale sul tema. Molto poco è invece emerso, da una parte e dall’altra, sui temi della politica economica e delle relazioni internazionali. Esauriti i fuochi artificiali sulle questioni eticamente sensibili e sul tema dell’immigrazione, i due candidati sono parsi impegnati in un rimpallo di responsabilità e in un gioco di addossamento reciproco di colpe per quanto riguarda l’Afghanistan, l’Ucraina e il Medio Oriente.

Al di là di alcune frasi di circostanza, che lasciano il retrogusto di espressioni attentamente studiate in anticipo e ripetute con diligenza, Harris non ha potuto offrire grandi scenari o possibili vie d’uscita per i conflitti in corso. La vicepresidente ha ribadito il sostegno totale a Israele e all’Ucraina, e per il resto ha ribadito una linea di continuità nelle relazioni internazionali che le è valsa il sostegno di una parte dell’ala neoconservatrice (primo tra tutti l’ex vicepresidente Dick Cheney, quello della guerra in Iraq) e di quegli apparati statali legati al complesso dell’industria bellica e del famigerato “stato profondo” di cui fanno parte Pentagono e CIA. Dall’altro lato, l’ex presidente Trump, che ha dato sfoggio di una geografia assolutamente bizzarra, ha proposto la sua idea di una politica estera basata sulla propria (presunta) capacità personale di mediatore carismatico e fuori dagli schemi, ripetendo che gli alleati europei devono pagare fior di quattrini se vogliono continuare a godere in futuro dello scudo protettivo USA.

Trump è apparso sconclusionato e incapace, come quasi sempre, di un discorso organico e lineare; Harris ha usato gran parte del tempo del dibattito per ricordare come Trump sia pericoloso, instabile e incompetente, come se l’argomento non fosse già noto in un dibattito tanto fortemente polarizzato sulla sua figura da otto anni a questa parte.
Poteva essere un momento di chiarimento dopo un’estate a base di meme “brat” e di battute sui gatti. Sfortunatamente le domande inevase sono state molte di più delle risposte.

Francesco Mazzucotelli* docente dell’Università di Pavia

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