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L'analisi

Riconferme, ritiri, fronti aperti in Libia, Siria, Ucraina e Gaza: le grosse incognite del Mediterraneo

In Europa Von del Leyen ancora presidente della Commissione Europea, ma come sua vice sceglie l'estone Kallas al posto di Borrell. Gli Usa attendono l'esito delle presidenziali, con il recente subentro di Kamala Harris a Joe Biden: ma continua a mancare un dibattito ragionato

Il ritiro del presidente uscente Joe Biden dalla campagna elettorale negli USA, l’ormai sicuro subentro della sua vice Kamala Harris, la riconferma di Ursula Albrecht von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea hanno movimentato la discussione politica degli ultimi giorni, ma è alquanto improbabile che tutti questi sviluppi possano portare elementi di chiarezza rispetto alle tensioni che aleggiano intorno al bacino mediterraneo.

Giovedì 18 giugno von der Leyen è stata riconfermata alla presidenza della Commissione Europea con 401 voti favorevoli, 284 contrari e 15 astenuti. La rielezione di von der Leyen è stata salutata come un segno di continuità e di stabilità politica, ma il risultato complessivo assomiglia più a una spartizione delle principali cariche istituzionali secondo acrobatici equilibrismi geografici e politici.

Nel suo discorso di fronte al Parlamento di Strasburgo, la presidente ha vagheggiato l’istituzione di un commissario ad hoc per il Mediterraneo, ma la nomina della liberale estone Kaja Kallas (al posto del socialista catalano Josep Borrell) come alta rappresentante della politica estera sembra invece spostare l’asse di gravità della strategia europea verso le sue frange orientali. Non a caso, il discorso di von der Leyen ha sottolineato l’importanza del confine della Finlandia, la stabilità nei Balcani, il desiderio di una futura adesione di Moldavia e Georgia all’Unione Europea.

Usando toni quasi da catechista, la presidente ha ricordato (bontà sua) che anche i migranti sono esseri umani “come noi”, e che pertanto le politiche europee devono conformarsi ad alcuni standard minimi di umanità e rispetto del diritto internazionale. In concreto, tuttavia, la linea proposta rimane quella dell’esternalizzazione dei controlli dei flussi migratori: in parole povere, la delega del lavoro pesante di respingimento agli apparati di sicurezza degli stati appena al di fuori dei confini europei.

La presidente intende rafforzare Frontex e gli accordi di cooperazione in materia di sicurezza con le autorità marocchine, tunisine, libiche e turche, nonostante i rilievi critici e le evidenze empiriche degli ultimi anni abbiano sottolineato gli effetti profondamente destabilizzanti della scelta di scaricare la gestione dei flussi migratori su paesi che hanno già per conto loro grossi problemi strutturali.

Il problema viene spostato senza risolverlo né a monte né a valle. Poco o nulla di concreto si è sentito sull’Africa, proprio mentre molti stati attraversano una fase di profonda turbolenza: nelle ex colonie francesi dell’Africa occidentale, tra elezioni contestate e colpi di stato, i nuovi vertici politici e militari intendono allentare i rapporti con la Francia e stringerne di nuovi con Russia e Cina.

Nulla si è detto della Libia, dove per anni Francia e Italia hanno sostenuto fazioni tra loro avverse.

Nel Mediterraneo orientale continua la gara per la delimitazione delle zone esclusive di estrazione del gas naturale dai giacimenti marini. Nella competizione in corso, divenuta sempre più accesa vista la necessità di diversificare le forniture dopo la guerra in Ucraina, le grandi compagnie come Total o Eni pesano molto più degli stati rivieraschi e degli stati membri della UE, ma questi ultimi riescono comunque ad andare in ordine rigorosamente sparso.

Le idee differiscono anche relativamente alla Siria: lunedì il ministro degli esteri austriaco Alexander Schallenberg, sostenuto dal suo omologo italiano Antonio Tajani, ha ammesso che la linea europea degli ultimi tredici anni è stata un fallimento, aggiungendo che una considerazione realistica degli scenari regionali impone oggi un riavvicinamento con il governo di Damasco. Alcuni governi, come quello greco, si sono accodati, ma resta tutta da vedere la risposta di Francia e Germania. L’Italia ha intanto annunciato che Stefano Ravagnan, diplomatico di lungo corso e finora “inviato speciale” per la Siria, dovrebbe diventare ambasciatore a tutti gli effetti, pertanto preludendo al ristabilimento delle piene relazioni diplomatiche tra Roma e Damasco.

Sulla spaventosa tragedia di Gaza la presidente rieletta non ha saputo dire granché, se non le già note parole di circostanza e triti slogan che non hanno alcun aggancio concreto con gli sviluppi del conflitto durante gli ultimi mesi. La posizione molto filoisraeliana di von der Leyen è stata finora mitigata da quella ben più equilibrata di Borrell. Bisognerà vedere come l’accoppiata con la nuova rappresentante Kallas cambierà il modo con cui l’Unione Europea si esprime e viene percepita nella regione. Il punto problematico rimane l’assenza di iniziativa politica, sia in una prospettiva di lungo termine per la questione israelo–palestinese sia in termini più immediati per quanto riguarda la gestione degli aiuti e la ricostruzione di Gaza dal giorno successivo a quello in cui dovessero tacere le armi e terminare i combattimenti.

Da questo punto di vista, gli sviluppi della campagna elettorale per le presidenziali e il discorso del primo ministro israeliano Netanyahu dinnanzi al Congresso USA hanno evidenziato in maniera chiara la natura asimmetrica delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico: una parte (quella americana) conta e detta la linea, l’altra si adegua. D’altronde succede quasi sempre così nella storia dei sistemi imperiali: la potenza egemone detta la linea ai soggetti vassalli e tributari, a meno che questi riescano per davvero a mettersi insieme per riequilibrare la relazione in una modalità più simmetrica.

C’è invece da scommettere che il dibattito politico in Europa continuerà ad avvitarsi sulla nomina del commissario alla pesca o sulla forma dei tappi di plastica, in attesa di capire come andranno a finire le elezioni presidenziali del 5 novembre.

Archiviata l’uscita di scena di Joe Biden, non sorprendente ma comunque disastrosa nei modi e nella tempistica, la campagna elettorale USA ha finora proposto due temi. Da un lato, la linea comunicativa in colore verde radioattivo di Kamala Harris, che ha tentato di dipingersi come “brat” (qualcosa tipo “ragazza fuori dagli schemi”), imitando la cantante Charlie XCX. Dall’altro lato, la barzelletta virale sulle presunte bizzarre abitudini del candidato vicepresidente repubblicano JD Vance con i cuscini del divano. Ci sarebbe quasi da ridere se il mondo non stesse andando a rotoli.

Il discorso di Netanyahu al Congresso (dove gli scranni dei deputati assenti per protesta sono stati riempiti con la claque di devoti e di finanziatori miliardari come Elon Musk), pur infarcito di colossali falsità, ha perlomeno costretto a riportare il discorso su un piano di maggiore serietà. Mentre Trump ha ricevuto Netanyahu e signora nella sua magione di Mar-a-Lago in Florida, Harris ha pronunciato un discorso che è parso come un capolavoro di equilibrismo, dichiarando da un lato l’incondizionato sostegno a Israele, ma dall’altro dicendosi sensibile alle voci di protesta contro l’uso sproporzionato della forza da parte israeliana. Si tratta di una fetta di elettorato di vitale importanza per la candidata democratica, che dovrà recuperare il consenso perso dal presidente uscente.

Al di là delle manovre di posizionamento nella campagna elettorale, tuttavia, le differenze tra Harris e Trump sono palesemente evidenti per quanto riguarda la guerra in Ucraina, ma più formali che reali per quanto riguarda la guerra a Gaza. Per ora, l’idea di entrambi i contendenti sembra rimanere quella della strategia della normalizzazione delle relazioni tra Israele e alcuni stati arabi filo-USA, in primis l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Il nome che gira come possibile futuro governatore della Striscia di Gaza è quello di Mohammed Dahlan, oligarca e antico leader del movimento Fatah (quello di Yasser Arafat) a Gaza. Odiatissimo da Hamas, inviso a una larga parte della popolazione gazana per lunghi trascorsi di corruzione, inviso alla Turchia, Dahlan è molto amato dagli emiri di Abu Dhabi e può contare su anni di collaborazione con gli apparati di sicurezza degli USA e di Israele.

Dahlan ha avuto un ruolo centrale nella spirale di caos che ha travolto Gaza tra le elezioni del gennaio 2006 e la presa del potere definitiva da parte di Hamas nell’estate 2007. Scommettere su di lui e sulle connessioni con i petrodollari del Golfo potrebbe non essere una grande idea: chissà se, tra un reel in verde neon e un meme sui divani, ci sarà il tempo per un dibattito ragionato.

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