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La recensione

Al Teatro Caverna il ricordo di Troisi e l’importanza dell’inadeguatezza nella società

Damiano Grasselli ed Orazio Condorelli hanno messo in scena “Pensavo fosse un omaggio a Troisi invece era un grammofono”, racconto teatrale il cui centro gravitazionale rimane l’esempio ironico, a trent'anni dalla morte, di un gigante della comicità

Bergamo. “Caro Massimo, da qualche tempo il tuo fantasma mi viene a trovare sul divano”. Un discorso diretto, un confronto vivo e vitale, quello che Damiano Grasselli ed Orazio Condorelli hanno messo in scena al Teatro Caverna, domenica 30 giugno, con lo spettacolo Pensavo fosse un omaggio a Troisi invece era un grammofono, spin-off estivo di Abboccaperta 24, rassegna di Teatro e Cultura.

Un racconto teatrale, risultato di un incontro tra Grasselli, bergamasco direttore artistico del Teatro Caverna, e Condorelli, regista ed autore teatrale catanese, che ha visto unire nella produzione il teatro bergamasco con Ultimi Fuochi Teatro, una compagnia napoletana trasferitasi a Spongano, in Puglia. Un incontro tra nord e sud, sul quale subito ironizzano i due attori presenti in scena, il cui centro gravitazionale rimane Napoli e, per la precisione, San Giorgio a Cremano. Paese natale di Massimo Troisi, uno dei giganti della comicità napoletana (e non solo), il cui fantasma torna idealmente a veleggiare negli spazi del Teatro Caverna, a trent’anni dalla morte, avvenuta nel 1994.

Un attore che ha unito nord e sud, “perché Troisi è di tutti”, una figura perennemente inadeguata, capace però di dare dello “spaccone” anche a Dio (“Chi t’ha dett’attè di fa tutt’e ccose ind’a sei juorn?! No, no tu tenevi l’eternità annanzi, jevi con calma e faciv’eccose per bene…no, no, no, secondo me haje volut fa nu poco ‘o spaccone!” dice Troisi nel “Dialogo con Dio” del 1981, riproposto in un video sulla scena). Un “perdente fortunato”, un divo senza fame di fama che parla ancora oggi del sentirsi inadeguati in una società di stereotipi che pretende la performatività ad ogni costo.

“Cosa è significato Troisi per te?” chiede Condorelli a Grasselli, entrambi in scena a ricordare eventi ed allo stesso tempo a rendere ancora testimone il pubblico di un gigante del teatro e del cinema italiano, attraverso una sintesi efficace, mossa sulla scena con disinvoltura, grazie alle giuste dosi di ironia e rispetto.

Un gigante proprio per la capacità di calarsi nella dimensione del quotidiano, nella dimensione dell’inadeguatezza. Un cantore del fallimento, da riscoprire e da comprendere, di nuovo, attraverso un’immersione totale e totalizzante nella propria opera. “È un peccato che non si comprenda bene Troisi, ma è un peccato ancor più grande che non sia stato compreso” dice Grasselli. Dal suo canto del fallimento nasce, ancora oggi, una voglia ed una necessità di ripartenza, una nuova consapevolezza verso una perfezione da sempre impossibile da raggiungere, da un fallimento e da una caduta che è cifra stessa dell’umanità. “Bisogna ricominciare, altrimenti si diventa brutti”. Ricominciare non da capo, ma da tre “perché qualcosa l’abbiamo fatta”.

 

Teatro Caverna Troisi

 

Una riscoperta che passa anche dall’eterno confronto stereotipato tra nord e sud, da superare nella consapevolezza che Troisi “era un pianeta che tutti potevano abitare, una lingua napoletana che diventa universale”. Sulla scena scorrono brevi parti di spettacoli, interviste e programmi televisivi con Troisi protagonista, un attore capace di esprimere grandezza nella sua umiltà, perfino di ritrovarsi in un Rossano Brazzi qualunque. La vicenda di un “Woody Allen italiano”, formato da un’ironia sottile ed intelligente, mai banale, in grado di far ricordare al pubblico come sia importante essere sé stessi, pur con le rispettive inadeguatezze. I vari quadri tracciati, con i loro argomenti, si amalgamo in un confronto diretto con Massimo Troisi e, di conseguenza, con il sé di ognuno. Un Troisi che da personaggio capace di denunciare ogni sopraffazione con ironia ed intelligenza, si mostra rinnovato nei volti di ognuno, un effetto straniante che diventa assunzione di responsabilità.

Pino Daniele canta “Napule è” in sottofondo, canzone che riempie una scena immersa ormai nell’immortalità laica che spesso avvolge i grandi personaggi dell’arte e dello spettacolo. Il lavoro di Grasselli e Condorelli parte proprio da un teatro di ricerca che si è immerso nell’essere napoletano di Troisi. “Eravamo così preparati, che ci sentivamo napoletani. Vedevamo Troisi dappertutto”, perfino sui volti di calciatori immortalati nelle figurine. Un Troisi immortale, che vive nella quotidianità, “un fantasma che abitava nel mio soggiorno” confessa Condorelli.

Un attore che rivive nella sua verve ironica, nella sua capacità di non prendersi troppo sul serio, denunciando allo stesso tempo le ipocrisie della società, come un diploma da geometra utile solo a coprire una macchia di umidità. Troisi diventa uno, nessuno, centomila. “Adesso mi sembra di essere trasparente, come un fantasma sul divano, che se non lo vedi ti manca, e se lo vedi ti spaventa”.

Un fantasma che racconta di stereotipi, amore, miracoli, ingiustizie, l’importanza dell’accettazione di sé. Un fantasma accogliente, che spaventa solo quando ricorda l’essenzialità della vita, l’importanza dell’autenticità delle piccole cose, dei sentimenti puri. Un fantasma che manca, alla società odierna, ma che può riemergere grazie al ricordo, all’incontro in altra forma. Un fantasma che torna, come un amico fidato: “ci vediamo a casa, perché tu sei sempre lì, sul divano”.

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