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La recensione

“Le streghe non esistono”: un bambino si fa carico della follia del mondo adulto

L'ultimo romanzo di Luca Scarlini è stato finalista al recente Premio Narrativa Bergamo

“Avevo quattro anni e ho sentito una frase pronunciata dal Retore con fare mondano davanti ai suoi amici: “Io non l’ho voluto certo, a me piace essere libero, fare il mio comodo, con lui sono cominciati i problemi, ma lei ha tanto insistito. L’odio, la rabbia, l’avversione, la scoliosi, i linfoblastomi, la perdita della vista, che si misura in diottrie che fuggono a precipizio, quanto detesto il Retore: tutte le malattie sono nate in me di colpo in quel momento. […] Io […] a quattro anni ero approdato in un secondo nella fornace del nulla, senza tuta di protezione.”

Luca Scarlini, nel suo ultimo romanzo intitolato Le streghe non esistono (ed. Bompiani), finalista al recente Premio Narrativa Bergamo, affida all’omonimo protagonista di nove anni un compito scomodo e delicato, cioè quello di farsi carico della follia del mondo adulto, della sua profonda arroganza, nonché di quell’egoismo autoreferenziale privo di dubbi e incertezze, reso schiavo dalle catene delle proprie ideologie. Un confronto duro e senza eccezione di colpi, tanto fisici quanto psicologici, scandito da rari e impercettibili momenti di fuga nel mondo del fantastico, dell’ignoto, del magico. Una patina opaca separa il mondo dei grandi da quello dei piccoli, un tempo circoscritto e limitato, un’occasione preziosa per non uccidere quel fanciullo che abiterà, da straniero incompreso, il corpo dell’adulto, membra destinate a un lento e inesorabile disfacimento.

Il bambino e l’uomo, il figlio e il padre, il futuro e il passato: categorie e dinamiche reciprocamente estranee, sorde e cieche all’appello disperato dell’alterità. Un libro divertente e ironico, uno scritto amaro e triste, poetico e terribile, scandito da una gestualità meccanica e misteriosa, quella dello schiaffo, testimoniante una progressiva assuefazione a parole e a gesti intrisi di violenza e ignoranza, subiti senza speranza, inferti senza dignità: “La meccanica dello schiaffo mantiene in sé un mistero sacro e terribile. Non è difficile capire da dove arriva il colpo, a che velocità si muove, il tipo, la qualità e la quantità di dolore che infligge, gli effetti di statica e di dinamismo. Ci sono tecniche sicure per schivarlo e fare finta di averlo preso in pieno: basta cadere a terra teatralmente, sfruttando l’effetto e tirarsi un pizzicotto veloce per produrre un credibile rossore. L’ho imparato al primo anno di asilo. Il crollo fisico dà un senso di onnipotenza al picchiatore, che interrompe l’attacco per permettere la contemplazione della vittoria sulla vittima. Quella soddisfazione induce nel ricevitore del colpo assai meno sofferenza ed è quindi senz’altro preferibile.”

Schivare e fuggire, arrendersi o reagire, rinunciare a capire “la psicologia del Retore [che] rimane un mistero”, in quanto “ciò che determina la sua ira o il suo buonumore sfugge a ogni […] possibile ricostruzione logica”. Il ceffone paterno, del tutto paradossalmente, e in modo beffardo, riduce distanze politiche, geografiche, posandosi “sulla guancia, specialmente sulla sinistra per uso perdurante della mano destra”. L’ingiustizia non conosce appartenenza e colore, avvolgendosi in stendardi monocromatici, altari votati alla mediocrità, al passatismo ridicolo e sterile. Non resta che danzare e svenire, cantare e partire, morire persino, rassegnandosi alla propria precarietà, al non senso, accettando l’esperienza vitale del limite, della paura, agognando una felicità impossibile da governare entro i confini del verosimile.

Vivere è “buttar[si] senza paracadute nell’arcobaleno del mondo”.

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