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La pubblicazione

“La verità e la biro”, Tiziano Scarpa abita il senso delle cose presenti e passate

L’autore, finalista del Premio Narrativa Bergamo, con questo libro si ripropone di farsi servitore della verità, senza filtri o reticenze

“Che libro bizzarro ne uscirà. Non ho mai scritto niente di simile. Anche questa è una prima volta, oltre al nudismo e alla pietra pomice. Voglio proprio vedere come farò, rielaborando questo brogliaccio, a tenere insieme i tre fili che si intrecciano: l’ambientazione in vacanza, i ricordi di persone veridiche, le mie riflessioni. Fino a che punto potrò inoltrarmi senza sconfinare nell’astrazione? Voglio ricavare leggi generali ma senza annoiare, si deve sentire che resto sempre agganciato all’esperienza”.

Non è usuale imbattersi in una sorta di autorecensione, quasi una confessione, all’interno dell’opera stessa. Un tentativo sincero, da parte dell’autore, di scorgere una ragione profonda, circa il metodo e il contenuto, in seno al lavoro prodotto. Ne emerge una chiave di lettura critica, una preoccupazione esibita ed evidente, nonché il timore di suscitare noia, di avere smarrito se stessi e il filo della propria narrazione. Il libro ospita e incatena le parole, le priva del suono, le “strappa” dai contesti di vita autentici e veritieri, esponendole artificialmente allo sguardo del lettore come antichi affreschi recisi dalle pareti delle chiese. Scrivere è un atto violento e per nulla rassicurante, una domesticazione impossibile di un contenuto sfuggente, ultimamente insondabile, un piacere erotico effimero, inconcludente, di breve durata. Tiziano Scarpa, finalista del Premio Narrativa Bergamo, nel suo scritto La verità e la biro (ed. Einaudi), si ripropone di farsi servitore della verità, di abitare il senso delle cose presenti e passate, senza filtri o reticenze, mettendo a repentaglio affetti, amicizie, persino la credibilità dell’uomo e dello scrittore. Toccare con mano l’abisso, “l’impossibilità di dirsi l’un l’altro la verità”, constatando la follia del desiderare umano, cioè quel bisogno “che le cose abbiano un’oggettivazione concreta”, cercando nell’intreccio carnale dei corpi una scintilla di senso, un sostrato comune a tutte le esperienze possibili, un sollazzarsi nell’odio e nel disprezzo del mondo: “Il sollazzo si ottiene dalla verità e dall’odio, e cioè quando si dicono le cose come stanno, in nome del vero, mentre gli altri le infiorettano e le occultano: sì, ma purché si dica la verità essendo consapevoli che essa scaturisce dal proprio odio, dal disprezzo ostile verso coloro che la addolciscono o la tacciono; ci si deve contrapporre al resto del mondo con un atteggiamento combattivo, perché nominare le cose in maniera veridica è una guerra”.

L’autore scrive “sotto le tamerici, su un terrapieno di sabbia”, ricercando nei contorni e nei profili altrui, “a portata di pelle”, quel corpo che si possiede e che si è, quel misterioso avvinghiarsi e differenziarsi nella nudità reciproca, nell’amplesso, nell’intuizione della mechanè: “Nel teatro greco, la mechanè era una gru che depositava un personaggio in scena, o lo prelevava. Di solito era un dio, soprattutto nelle tragedie di Euripide; da qui, l’espressione deus ex machina, il dio fornito dalla macchina. C’è bisogno di un apparato per attingere a qualcosa che non riusciremmo a esperire altrimenti”.

“[Quel]le gru che portano gli dèi in terra e i mortali in cielo con gran stridore di cordami e ganci e pulegge” testimoniamo l’incapacità umana di saziare, fino in fondo, i suoi più inconfessabili appetiti, una dipendenza e una precarietà, un bisogno di verità che “non riusciamo a dir[e] né a guardar[e] così com’è”.

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