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L'intervento

Quando il lavoro non basta per uscire dalla povertà

Credo che si sia focalizzata la discussione sul salario minimo e sul reddito di cittadinanza - che sono due misure necessarie di semplice salvaguardia, mentre è urgente affrontare di petto la nuova “questione salariale”

C’è un tema di cui si discute poco e che spiega meglio di altri di come va il nostro sistema economico, ed è quello salariale. Lo rivela l’ISTAT nel suo recente rapporto annuale evidenziando
come il potere d’acquisto della popolazione italiana sia diminuito negli ultimi 10 anni, mentre in Francia, Germania e Spagna registra una crescita.

Il Governo continua a snocciolare dati sui record dell’occupazione omettendo di dire che molti occupati sono sì con contratti stabili ma con un reddito precario per le insufficienti ore lavorate
nell’anno e con salari che non hanno recuperato l’erosione del potere d’acquisto dell’ultimo decennio. Ciò significa che l’economia non va bene.

Personalmente credo che si sia focalizzata la discussione sul salario minimo e sul reddito di cittadinanza – che sono due misure necessarie di semplice salvaguardia, mentre è urgente affrontare di petto la nuova “questione salariale”.

Il movimento sindacale – anziché dividersi inseguendo le bandiere di referendum sul Job Act o di leggi popolari per l’aggancio dei salari agli utili delle aziende, dovrebbe per prima cosa verificare il perché uno strumento che è nelle sue mani come la contrattazione e i contratti collettivi, negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi tre anni, non siano riusciti a proteggere i salari reali dall’inflazione come gli era stato esplicitamente affidato con il superamento della scala mobile (strumento di adeguamento dei salari all’inflazione che venne definitivamente soppresso in Italia con la firma del protocollo triangolare di intesa tra il Governo Amato I e le parti sociali avvenuta il 31 luglio 1992), limitandosi a proteggere i salari solo in alcuni settori dove per le componenti di secondo livello hanno in parte compensato la perdita del potere d’acquisto.

Certamente la situazione internazionale, la crisi energetica e la guerra in Ucraina hanno pesato negativamente sui salari creando un prolungato disallineamento tra salari e prezzi che ha
contribuito a modificare le decisioni di acquisto e gli stili di vita dei consumatori.

Va comunque tenuto presente che secondo l’Istat l’indice delle retribuzioni contrattuali aumenta del 5,4% tra il 2019 e il 2023, mentre l’inflazione nello stesso periodo è stata del 16, 2 %, che di
fatto per i salari significa una diminuzione reale del 9,3% in quattro anni.

1. Si devono innanzitutto individuare i fattori per intervenire su quelli che hanno determinato  la bassa crescita dei salari.

2. Contratti di lavoro instabili come reddito e ore lavorate – Anche se l’Istat certifica la diminuzione di contratti a tempo determinato, c’è una crescita di contratti stabili a tempo indeterminato ma instabili o precari sul numero di ore lavorate nell’anno, come lo sono la sottoccupazione o il part-time involontario. Determinano il lavoro povero.

3. Bassa produttività – La bassa produttività del lavoro è uno dei principali fattori che contribuiscono alla bassa crescita salariale. Tra il 2010 e il 2017, la produttività in Italia è rimasta praticamente invariata, con qualche piccolo incremento. Continuiamo spendere parola e proclami sul “Made in Italy” ma di fatto siamo sempre meno capaci di innovare per aumentare efficacia al modo di produrre servizi e beni.

4. Inflazione – L’inflazione da sempre è stata la bestia nera – la peggiore delle tasse – del sindacalismo perché erode i salari, fa perdere potere d’acquisto alle famiglie e contribuisce a ridisegnare i tratti delle disuguaglianze tra chi s’arricchisce e chi viene impoverito. È ormai evidente che le recenti crisi provocate dalla pandemia e dall’inflazione non hanno avuto le stesse ricadute per tutti ma hanno hanno pesato maggiormente sui lavoratori con basse retribuzioni e su quelli costretti a lavorare in modo anomalo. Che oggi si sia inserita nel dibattito pubblico la categoria di lavoro povero mi turba e mi indigna se penso che la nostra Carta costituzionale dice che la Repubblica è fondata su lavoro, non un lavoro qualsiasi ma dignitoso e il salario è il segno di questa dignità. Si deve riflettere, con dati alla mano, sul fatto che l’indice IPCA (definito dall’Istat) preso a riferimento per i rinnovi contrattuali è fortemente penalizzante per la salvaguardia del potere d’acquisto in quanto non incorpora l’inflazione importata ( es. per l’aumento delle tariffe). Così pure prendere atto che la contrattazione di secondo livello copre non più di 4-5 milioni di lavoratori. Ovvero la sola contrattazione sindacale, senza un’adeguata legislazione di sostegno, a fronte dei mutamenti dell’economia e del sociale non è in grado di garantire la tenuta dei salari a fronte dell’inflazione e dei salari minimi.

5. Mancata crescita economica – La mancata crescita economica negli ultimi vent’anni è un altro motivo che viene adotto per giustificare i bassi stipendi in Italia, mentre pur con la bassa crescita i profitti della maggioranza delle aziende medie e grandi sono aumentati. 6. Difficoltà delle aziende – L’incapacità dell’Italia di attrarre nuove imprese o per incentivare l’aggregazione di quelle piccole per aumentare la concorrenza, e conseguente alle mancate riforme, quindi responsabilità della politica, sempre abbozzate e continuamente modificate.

Mettendo a confronto il nostro Paese con altri paesi europei in termini di salari si rileva:

  • Che in 15 dei 27 Paesi dell’UE si guadagna meno che in Italia, mentre nei restanti 11 Paesi le retribuzioni sono più elevate;
  • Retribuzione oraria mediana: Nel 2018, la retribuzione oraria mediana in Italia era di 12,6 euro lordi. Questo è inferiore rispetto a Paesi come Lussemburgo (19,6 euro), Germania (17,2), Francia (15,3) e Danimarca (27,2). Tuttavia, è superiore rispetto a Paesi come Spagna (10,1 euro l’ora), Croazia (5,4 euro) e alcuni Paesi dell’Europa orientale.
  • Crescita salariale: Nel 2021, i salari italiani sono aumentati solo del 2,3% (da 20,8 a 21,2 euro all’ora), al di sotto della media europea del 4,4%3. Questo è anche inferiore rispetto a Paesi come Germania e Francia, che hanno visto aumentare le proprie retribuzioni medie di circa il 4%3.
  • Salario medio annuo: Nell’Eurozona, il salario medio si attesta a 37,4 mila euro lordi annui. In confronto, in Italia il salario medio è di 8 mila euro sotto la media dell’Eurozona. In Francia, il salario medio supera i 40,1 mila euro, mentre in Germania arriva ad oltre 44,5 mila euro.
  • Salario minimo: L’Italia è uno dei pochi Paesi dell’UE, insieme a Danimarca, Austria, Finlandia e Svezia, che non prevede un salario minimo, che a mio parere non risolve la questione salariare ma potrebbe servire ad evitare uno scivolamento dei salari verso il basso.

    Un recente rapporto dell’ISTAT dimostra come il potere d’acquisto della popolazione italiana sia calato negli ultimi dieci anni, mentre in Francia, Germania e Spagna è salito. Infine, che cosa può dire questo vecchio sindacalista, se non che è maturo il tempo di agire e uscire dalla propaganda e dalla inutile dialettica tra sindacati, per affrontare le questioni reali e quella dei salari è una di queste. Il principio di uguaglianza cui continuo a ispirarmi come ideale da perseguire richiede che nei rapporti economici si realizzino sempre dei principi di equità tra chi possiede e chi è meno abbiente., cosa che a mio parere è venuta meno generando la sfiducia nel modello democratico che si basa sul principio di uguaglianza come fondamento della libertà.

    savino pezzotta foto agenzia Fotogramma

    * Savino Pezzotta, bergamasco, sindacalista e politico italiano, è stato segretario nazionale della Cisl.

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