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32 anni dopo

Strage di Capaci, il generale Balsamo: “Dieci anni prima Falcone venne a Bergamo”

Domenico Balsamo: "Lo conoscevo abbastanza bene, lo incontrai in più occasioni, anche quando venne a Bergamo nel mio ufficio per interrogare un testimone"

È il 23 maggio 1992. Il giovane capitano Domenico Balsamo è sul traghetto per ordine del Comando Generale che aveva anticipato in via urgente il suo trasferimento a “Palermo 2”, al Comando del Nucleo Operativo del Gruppo di Monreale.

Sarebbe stato un enorme cambiamento passare da comandi operativi del nord Italia, tra cui Bergamo, a quello di Palermo. Fu proprio il Capitano a scegliere Palermo come destinazione, per via della sua forte volontà di aiutare a combattere quella eco di violenza e corruzione mafiosa che andava avanti da anni, ma non aveva previsto che la sua vita si sarebbe intrecciata con gli eventi mafiosi più cruenti degli anni ‘90.

Fu proprio al comando di Bergamo in Via delle Valli che, una decina di anni prima, il Capitano ebbe uno dei suoi primi incontri con il Giudice Giovanni Falcone.

“Conoscevo Falcone abbastanza bene, lo incontrai in più occasioni, anche quando venne a Bergamo nel mio ufficio per interrogare un testimone, tale G. S., rivelatosi poi un mitomane, che aveva dichiarato di aver assistito all’omicidio il Generale Dalla Chiesa. Effettivamente alcuni elementi delle sue dichiarazioni corrispondevano, come, tra le altre cose, che al momento dei fatti stesse a Palermo in via Carini e che guidasse un autobus. Nessuno avrebbe mai pensato che qualcuno potesse farsi avanti con una bugia contro Cosa Nostra, che è cosa pericolosissima. Andando poi a fondo, con il Giudice Falcone, capimmo che però la storia non reggeva ed infatti il sedicente testimone fu poi condannato per falsa testimonianza”.

“Arrivai a Bergamo al nucleo operativo e Radiomobile agli inizi degli anni 80, e mi trovai subito benissimo perché la città era davvero bella e anche la gente mi piaceva. Ho avuto anche soddisfazioni sul lavoro, dove però anche a Bergamo, incredibile a dirlo dato che era considerata una città mediamente tranquilla, una delle prime mattine di servizio ci fu un omicidio con lupara ad un casello autostradale”.

Giunto a Palermo, appena sceso dal traghetto, il Capitano fu accolto da un uomo dall’aspetto apparentemente sinistro, rivelatosi però essere un carabiniere del nucleo operativo in borghese che doveva muoversi, indagare e mescolarsi nel tessuto urbano intriso di criminalità e mafia, senza destare sospetti.

Fu in auto che il Capitano apprese la notizia di quella che poi venne tristemente ribattezzata e nota a tutti come “la strage di Capaci”. Ricordiamo tutti le immagini dell’autostrada divelta dalla furia mafiosa che, per essere sicura di portare a termine l’omicidio, piazzò 500 kg di tritolo sul tragitto di Falcone. Insieme a lui persero la vita anche la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

“La notizia della bomba mi raggiunse via radio mentre ero in auto verso la caserma di Monreale. Ero scioccato, Falcone sarebbe stato tra le prime persone che avrei dovuto vedere una volta arrivato in Sicilia”.

Lasciata la vita della terraferma per approdare sull’isola, l’impatto fu quindi estremamente più duro di quanto l’Ufficiale si sarebbe mai aspettato. “Mi sembrava di stare in un film, non era come l’Italia che avevo appena lasciato, era tutto un altro mondo: cactus, terreno brullo, fiori particolari che non avevo mai visto prima, gli uomini con in testa la coppola nonostante il gran caldo…”.

La caserma del Gruppo “Palermo 2”, completamente bianca, dominava la valle con una enorme bandiera issata in cima, e per questo veniva chiamata “Forte Apache”. A Monreale la presenza della mafia permeava la vita quotidiana contaminando e influenzando ogni cosa: le relazioni sociali, le attività commerciali e persino le istituzioni locali, creando un clima di diffidenza diffuso tra gli abitanti.

In questo contesto carico di tensione, il Capitano si immerse immediatamente nelle indagini collaborando con la sua squadra e con i magistrati, in particolare con Paolo Borsellino, almeno per quei 57 giorni che precedettero anche la sua morte.

 

Paolo Borsellino

 

“Cominciammo subito le indagini, mi presentano gli altri magistrati e conobbi Borsellino, con cui passai praticamente tutti i giorni perché aveva chiesto di essere affiancato dal personale di polizia giudiziaria dei Carabinieri. Cercavamo di capirci qualcosa ma era molto difficile all’epoca poiché tutte le famiglie mafiose dei dintorni non erano note. Si sapeva che era stata Cosa Nostra solo per via del modus operandi… tutti abbiamo in mente le immagini di Capaci. Tutte queste indagini andarono avanti fino al secondo attentato, quello di Borsellino, che per me fu ancora più scioccante”.

Come in tutte le storie, ci sono alcuni protagonisti che brillano sotto i riflettori, mentre altri rimangono nell’ombra, seppure il loro contributo sia stato determinante per il corso degli eventi. Così avvenne anche per l’arresto di Baldassare Di Maggio, un esponente della famiglia di San Giuseppe Jato e Clan dei Corleonesi. Questo fu il primo passo per arrivare al covo di Riina, il mandante degli omicidi -tra i tanti- di Falcone e Borsellino.

“Le indagini partirono da due semplici carabinieri della stazione di San Giuseppe Jato, paese originario dei Brusca. Loro vennero a dirmi che in paese avevano sentito che Di Maggio si era allontanato perché minacciato da Cosa Nostra, da Riina in particolare -poiché questi preferiva Brusca a lui-, con la scusa che aspettava una bambina da una donna con cui non era sposato. Una delle caratteristiche di Cosa Nostra è che in caso di disaccordo si risolveva il problema con l’omicidio, anche se si trattava di propri membri”.

Cominciarono le indagini esplorando ogni comune d’Italia alla ricerca di tracce che potessero condurre a personaggi legati a San Giuseppe Jato, qualcuno su cui Di Maggio avrebbe potuto fare affidamento e trovare appoggio per salvarsi la vita, e così fu. Facendo svariate ricerche anagrafiche sul territorio si arrivò a un carrozziere di Omegna, sul lago d’Orte. Tuttavia, non si poteva agire senza prove a suo carico, ma finalmente a inizio gennaio ’93 i ragazzi della sala intercettazioni registrarono una telefonata sospetta che menzionava bustine di droga, un’arma e giubbetti antiproiettile. Quello fu il punto di svolta delle indagini perché fornì gli elementi necessari per procedere con un eventuale arresto.

“Telefonai nuovamente al comando di Novara, col quale ero stato in contatto durante le intercettazioni, per avvisare di fermare Di Maggio. Nel frattempo presi due aerei per arrivare sul posto, Borgomanero, che raggiunsi verso mezzanotte. Dopo aver incontrato i carabinieri di Novara, ai quali spiegai del mandato ricevuto dai magistrati palermitani, trovai Di Maggio in uno stanzone circondato da diversi militari; mi sedetti di fronte a lui e lo convinsi a collaborare, ribadendogli ciò che già sapeva: in carcere avrebbe avuto grossi problemi perché Riina aveva già dato l’ordine di eliminarlo. Qualora avesse collaborato con la giustizia, invece, avremmo potuto aiutarlo a trovare una sistemazione per lui, la compagna e la figlia. Gli diedi tutta una serie di elementi utili a motivarlo alla collaborazione con la giustizia, questo processo è sempre complicato e molto lungo. A quel punto ammise la sua partecipazione a Cosa Nostra, confessando in pochi minuti ben 13 omicidi. Tra le varie cose raccontò di aver visto Riina due volte, la prima volta all’incirca cinque anni prima, alla comunione di uno dei figli, dei quali noi fino a quel momento non avevamo notizia, e la seconda volta l’aveva visto un paio di anni prima -dal momento dell’interrogatorio- appoggiato a un distributore sulla tangenziale di Palermo che parlava con un altro mafioso. Seppe ricostruire tutto con dovizia di particolari: gli omicidi, i bossoli, le armi usate, i feriti. Di Maggio è stato uno dei testimoni più attendibile per anni”.

L’interrogatorio finì l’indomani mattina, quando al capitano venne ordinato di tornare in Sicilia per accompagnare i magistrati inquirenti a Novara. Furono tre giorni intensi tra viaggi e interrogatori. I magistrati di Palermo concordarono con i magistrati di Novara le rispettive competenze giuridiche, e contemporaneamente, diedero l’assenso al trasferimento di Di Maggio in Sicilia. Inizialmente fu messo in cella di sicurezza a Monreale, e quindi portato a Palermo.

“Dal momento dell’arresto, per un paio di volte andai con lui a fare sopralluoghi notturni su un furgone perché Di Maggio ci fece vedere tutti i posti dove c’erano stati fatti eclatanti: alcuni omicidi che diceva di aver commesso, la casa e il deposito d’armi della famiglia Brusca, etc. Ci fece fare tutta la provincia di Palermo per darci tutti gli elementi possibili per poter andare avanti con le indagini. A questo punto il vicecomandante operativo della Regione, il Colonnello Domenico Cagnazzo, decise di coinvolgere nelle indagini anche il ROS, che intervenne con la Sezione del Capitano De Caprio (conosciuto ai più come “il capitano Ultimo” n.d.r.), visto che la pista che si stava seguendo era ben promettente”.

Avviata la collaborazione col ROS, si divisero anche le competenze dei due Reparti. Di Maggio aveva indicato tra le persone vicine a Riina un certo Sansone, ma all’anagrafe di Palermo ce n’erano all’incirca 16. Le intercettazioni, sia dei Sansone sia del presunto autista di Riina, vennero così divise casualmente tra i due Gruppi Territoriali di Palermo ed il ROS.

Ai carabinieri del ROS capitò di dover intercettare un certo Giuseppe Sansone e durante una delle telefonate emerse che stava per portare la figlia a Nizza per un’operazione. Notoriamente, Nizza era la meta di molti uomini di Cosa Nostra per esigenze sanitarie. L’operazione, guidata a quel punto dal ROS, portò a un complesso residenziale di villette dove furono installate delle telecamere. Ogni sera i nastri venivano visionati dal Capitano Balsamo, il Capitano De Caprio e due dei loro corrispettivi marescialli.

“Dopo all’incirca un paio di giorni vedemmo dalle riprese, seduta affianco al guidatore, la faccia inequivocabile della moglie di Riina, Antonietta Bagarella detta Ninì. Dico “inequivocabile” perché la sua faccia era affissa in tutti i corridoi dei nuclei operativi. Quindi avevamo la certezza che in quel complesso residenziale c’era la famiglia di Riina, ma di lui ancora non c’erano tracce. Dopo questa serie di indagini si decise di mettere Di Maggio nel furgone, appostato fuori dalle villette, e dopo poco lui individuò Totò Riina. A pochi metri dal complesso residenziale, conseguentemente, la squadra del ROS eseguì il famoso arresto”.

A giugno dello stesso anno finirono le indagini, con tutte le dichiarazioni di Di Maggio corroborate da prove e documentazioni e il Gruppo di Palermo 2 eseguì l’arresto di altri 121 uomini appartenenti a Cosa Nostra, fino ad allora quasi sconosciuti alla giustizia. Erano tutti di famiglie di Corleonesi, tra cui Santino Di Matteo, il cui nome è noto poiché il figlio di soli 12 anni fu sciolto nell’acido il 23 novembre 1993 per ordine di Brusca, per impedire che il padre collaborasse con la giustizia.

Il Gruppo 2, in particolare il Nucleo Operativo del Capitano Balsamo, quell’anno ottenne risultati eccezionali, con l’arresto di circa 220 persone appartenenti a Cosa Nostra, in due anni scarsi.

“C’era molta determinazione da parte di tutti noi per catturare i mandanti e gli esecutori dell’attentato di Falcone, e la grande soddisfazione conseguita è che sono tutti finiti in carcere. Una volta arrestato Riina, il Colonnello Cagnazzo ci scrisse una lettera di complimenti, dall’incipit: “…Per motivarvi ulteriormente a risultati prestigiosi, vi scrivo una lista di latitanti…”. Sul foglio c’erano i nomi di 30 persone, 29 delle quali sono state catturate quasi nell’immediato, l’ultimo invece è stato Matteo Messina Denaro. I 30 latitanti più pericolosi sono stati tutti presi e questi sono risultati clamorosi di cui non si parla mai abbastanza. Non tutti furono arrestati dal Gruppo di Palermo 2, come per esempio Bagarella e Di Matteo che vennero arrestati successivamente, quand’io ero ormai in servizio alla DIA”.

A gennaio 1994 il Capitano fu infatti trasferito alla DIA, la Direzione Investigativa Antimafia, organismo investigativo interforze disegnato e voluto da Giovanni Falcone e istituito nel 1991.

“Quando mi destinarono alla DIA, sul traghetto che riportava me e la mia famiglia sulla terraferma, provai molta soddisfazione per quanto fatto fino ad allora. Arrivammo quindi a Roma, dove mio figlio avrebbe poi potuto frequentare tutte le scuole in un contesto completamente diverso”.

Giunto sulla penisola, infatti, il Capitano poté lasciarsi alle spalle la costante ed incombente sensazione di minaccia di morte, sorte riservata ad altri ufficiali dell’Arma operanti sull’isola contro la mafia, solo pochi anni prima.

“Ho sempre avuto una costante preoccupazione ed attenzione non per me, ma per la mia famiglia, tant’è che avevo preferito non mandare mio figlio all’asilo. Non potevo sottovalutare, infatti, che proprio a Monreale, ad uno dei Capitani lì in servizio prima di me, Emanuele Basile, avevano sparato il 4 maggio 1980, uccidendolo in pieno centro con la figlia piccola in braccio, mentre in un’altra occasione alcune persone si presentarono all’asilo e tentarono di portarla via. Solo tre anni dopo, peraltro, anche il successore di Basile, il Capitano Mario D’Aleo, era stato ammazzato insieme ai militari Bommarito e Morici, in un altro vile attentato. Con queste premesse non avrei potuto mandare mio figlio a scuola “in sicurezza”. Per mia moglie, inoltre, preferivo che non uscisse dalla caserma se non in mia compagnia, nei rari momenti di libertà”.

Difatti il Capitano, secondo le dichiarazioni di Brusca, sfuggì ad almeno un attentato per pura fortuna. “Quando Brusca si pentì ci raccontò che nel paese avevano sentito che io e i miei uomini eravamo in una caserma di Termini Imerese con Di Maggio e disse che erano arrivati alla stazione con un missile che avrebbero voluto far esplodere per il pentito e per noi, ma essendo noi andati via da pochi minuti desistettero dall’azione e questo è valso la nostra salvezza”.

“In un’altra occasione eravamo fuori in macchina ed ebbi una brutta sensazione vedendo due individui che si avvicinavano in moto con i caschi. A quell’epoca erano ancora latitanti moltissimi boss, Brusca, Bagarella, Riina e tantissimi altri delinquenti assassini. Quando si andava in mezzo al traffico si era svantaggiati, innanzitutto perché sarebbe stato comunque facile vedere con che mezzi si usciva dalla caserma e quando nel traffico si avvicinavano persone in moto che indossavano i caschi, avrebbero potuto senz’altro essere dei sicari. È successo più volte, nel tempo, che qualcuno si avvicinasse in moto e in quei momenti occorre essere assolutamente in allerta e pronti ad eventuali reazioni”.

Cosa nostra, come un camaleonte, si trasforma e si adatta alle sfumature del tempo, alterando il suo volto e la sua percezione ma non la sua essenza criminale. Scavando a fondo nella sua storia di crimini ha sempre avuto alti e bassi, momenti in cui c’erano tanti omicidi efferati e momenti di apparente calma piatta.

“C’è un detto siciliano che dice “calati juncu ca passa la china” che significa “Calati giunco che passa la piena del fiume”. Così fa la mafia: ci sono dei momenti in cui si cela, è sommersa, non attira l’attenzione con crimini eclatanti, non ammazza magistrati, poliziotti o carabinieri per evitare reazioni decise dello Stato. Adesso che la parte militare è azzerata, non si registrano attentati o stragi come negli anni 90”.

I vecchi boss mafiosi noti per la violenza e gli omicidi, sono stati nel tempo sostituiti, in larga parte, dai “colletti bianchi”, più orientati ai profitti che alla violenza diretta. Tuttavia, se necessario, Cosa Nostra non esita a ricorrere agli omicidi per mantenere il controllo dei territori.

“La mafia c’è lo stesso ma ha questa capacità di dare un’immagine di sé diversa e quasi quasi “tollerata” perché in fondo “non succede nulla” e non si ammazza nessuno, ma i suoi appartenenti rimangono criminali. Dopo oltre trent’anni di esperienza sul campo mi viene da dire che la mafia è un modo di vivere al quale si assiste fin dall’infanzia, si cresce in realtà sociali fatte di prepotenze, ricatti, violenze e soprusi, per cui per chi nasce in certi ambienti è oggettivamente difficile riuscire a ribellarsi”.

“Dopo un anno dal mio arrivo alla DIA a Roma il Colonnello dei Carabinieri Tommaselli, all’epoca Vice Direttore Operativo, in relazione all’arresto di Riina, mi disse “Ne parleranno per 20 anni!”. L’ho sentito pochi giorni fa e gli ho detto “Generale, si è sbagliato, non ne hanno parlato per 20 anni, ne stanno parlando ancora dopo oltre 30!””.

Sono passati 32 anni, infatti, e il ricordo di Falcone e Borsellino è ancora vivo nella memoria di tutti. Sono stati i baluardi di coraggio, integrità e giustizia stroncati dall’efferatezza di Cosa Nostra.

Falcone, con la sua lucida determinazione, ci ha insegnato che la mafia è una realtà umana con radici profonde nella società, che va combattuta con azioni concrete e indagini senza sosta per smantellare la sua struttura fino alle fondamenta, senza dimenticare che, come tutti i fatti umani, verrà il giorno della sua fine.

La battaglia contro la mafia è -però- ancora una strada in salita e il ricordo di questi due giudici non deve essere solo un dovuto omaggio commemorativo che dura il tempo di una cerimonia, ma deve essere una chiamata all’azione che duri 365 giorni l’anno, agendo nel profondo dei contesti sociali siciliani e di tutti quelli dove albergano analoghe organizzazioni criminali.

Lo dobbiamo non solo a tutti coloro che hanno perso la propria vita durante la lotta alla mafia, ma lo dobbiamo anche a chi ha combattuto al loro fianco, nella consapevolezza che quello stesso destino sarebbe potuto essere anche il loro e delle loro famiglie, ma è comunque andato avanti, imperterrito, con abnegazione, coraggio e spirito civico.

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