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L'anniversario

28 aprile 1945, Rovetta. L’ultimo fragore della guerra civile video

La vicenda della drammatica esplosione di violenza di quella mattina di primavera in Alta Val Seriana, con l'uccisione di 43 militi della divisione repubblichina Tagliamento, raccontata dai ricordi di chi quei fatti li ha visti con i propri occhi e dalla voce di chi li ha studiati per tutta una vita

Rovetta, 28 aprile 1945. La Val Seriana inizia a fare i conti con il suo passato recente, uscendo dai terribili venti mesi della guerra civile. Una stagione feroce che chiedeva un’uscita di scena altrettanto tragica.

A Rovetta, piccolo paese della Bergamasca sito all’estremità orientale dell’altopiano di Clusone, dopo l’8 settembre il tempo iniziò a trascorrere senza particolari conflittualità, trascinandosi fino alla drammatica esplosione di violenza di quella mattina, quando 43 repubblichini vennero fucilati da un plotone di partigiani al cimitero del paese. Un momento dalla non semplice interpretazione storica e morale, in cui la storia della Resistenza si scontrò con l’estrema tragicità della guerra civile.

I fatti di Rovetta hanno origine con la costituzione del locale Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) il 26 aprile, grazie all’azione del parroco del paese don Giuseppe Bravi e alla spinta del maggiore di tendenza badogliana Giuseppe Pacifico. Quella stessa mattina il sottotenente Roberto Panzanelli, al comando dei 50 militi della divisione repubblichina Tagliamento – la legione d’assalto fascista presente dalla fine di ottobre del 1944 in Val Camonica – di presidio al Passo della Presolana, fu raggiunto dalla notizia della disfatta nazifascista. L’ufficiale, dopo iniziali tentennamenti e dopo l’arrivo a Rovetta nel tentativo di raggiungere Bergamo con l’inganno, fu convinto ad arrendersi dal maggiore Pacifico davanti alla promessa di un equo trattamento come prigionieri di guerra una volta deposte le armi.

Ma, nel giro di poche ore, la situazione sfuggì totalmente di mano al Cln di Rovetta. Pacifico lasciò il paese alle prime luci dell’alba del 28 aprile per salire alla Cantoniera e assistere alla resa dei tedeschi, defilandosi nel momento decisivo in un clima estremamente saturo di violenza.

Uno dei protagonisti dei giorni della resa in Alta Val Seriana e dei fatti dell’aprile del 45′ fu il capitano Mojcano, all’anagrafe Paolo Poduje, agente dei servizi segreti inglesi paracadutato il 6 aprile sul Pizzo Formico e che nel giro di pochi giorni fu in grado di acquistare potere e fiducia tra i ranghi delle brigate partigiane che agivano nella zona, diventando di fatto comandante dei distaccamenti della 53° brigata Garibaldi Tredici Martiri. Una figura, quella di Mojcano, rimasta nell’ombra per più di cinquant’anni, fino al momento in cui nel 1998 egli venne rintracciato a Milano dal presidente dell’Isrec di Bergamo Angelo Bendotti.

 

capitano mojcano

 

Un rapporto – datato 22 dicembre 1949 – scritto dal maresciallo maggiore della Stazione dei carabinieri di Clusone Giovanni Guerini, durante le successive indagini su quella che passò alla storia come “la strage di Rovetta”, riporta la testimonianza del caposquadra della Camozzi Lino Chiapparini, dalla quale emerge come sia stato proprio il capitano Mojcano a dare l’ordine ad un plotone di circa cento uomini di recarsi a Rovetta per prendere in consegna i militi della Tagliamento.

 

strage di Rovetta cimitero

 

I legionari vennero condotti al cimitero di Rovetta dove vennero giustiziati sotto i colpi impietosi del plotone di esecuzione guidato da Battista Torri detto ‘Fulmine’, uomo di fiducia del Mojcano. Il fuoco ebbe inizio verso le undici del mattino. Nel giro di un’ora al cimitero di Rovetta era tornato a regnare incontrastato il silenzio delle montagne. Tra i cadaveri, anche quello di Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini, sorella del duce.

Sconfinato il valore della testimonianza di Maria Scandella, allora una bambina di 10 anni che abitava nel territorio di quello che ai tempi era il comune di Rovetta con Fino. Oggi di anni Maria ne ha 89 ed è residente a Bergamo. Ma, nonostante l’anziana età, la sua memoria non trema nel riportare a galla i tragici ricordi di quell’aprile, come fossero indelebilmente scolpiti su pietra.

 

Maria Scandella

 

Ad informare la questura dell’avvenuta fucilazione fu una lettera anonima, un messaggio “sgrammaticato” che innescò la reazione che in seguito portò all’apertura del lungo procedimento giudiziario (1946-1952). Un procedimento che, come raccontato dalla direttrice dell’Isrec Elisabetta Ruffini, si concluse con un “non doversi procedere”, stabilito in sezione istruttoria in base al fatto che la guerra giuridicamente finisce nel giorno in cui sul territorio bergamasco si installa il governo alleato, il 2 maggio 1945.

“Per la giustizia solamente da quel momento uccidere un uomo diventa un reato, non più un atto di guerra – spiega Ruffini -. Se ciò è vero in teoria, rimane il nodo etico e morale, e dall’altro lato il nodo narrativo, ‘come’ raccontare questa storia, che i fatti di Rovetta sollevano”.

Ed ecco che allora la drammatica esplosione di violenza del mattino del 28 aprile ’45 impone, quanto a meno a chi non desidera strumentalizzare la vicenda, di provare a fare i conti con l’immane tragicità dell’esperienza partigiana, per tentare di “instaurare un mondo giusto” che sia in grado di confrontarsi con la storia che verrà.

 

 

Molte delle informazioni storiche presenti in questo articolo provengono da “Gli ultimi fuochi. 28 aprile 1945 a Rovetta” di Angelo Bendotti e Elisabetta Ruffini. Altri lavori degni di nota sui fatti di Rovetta sono “L’eccidio di Rovetta” di Lodovico Galli e “Erano giorni di ferro e di fuoco” di Stefano Pedrocchi.

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