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Tribunale

Morì nel rogo in Psichiatria, il giudice: “Gravi omissioni dell’ospedale, si indaghi su ex dg e responsabile della prevenzione”

Depositate le motivazioni della sentenza di assoluzione dei due addetti della squadra antincendio. Nel reparto "lenzuola non ignifughe, materiale infiammabile, niente sprinkler né impianti di aspirazione dei fumi caldi"

Bergamo. “Gravi omissioni da parte dell’ospedale Papa Giovanni XXIII“. Le ravvisa il giudice Laura Garufi e le esplicita nelle motivazioni della sentenza che ha visto l’assoluzione dei due addetti della squadra antincendio della Gsa, società di Udine che gestiva il servizio all’ospedale, ritenuti non responsabili della morte della 19enne Elena Casetto, deceduta il 13 agosto 2019 nel reparto di Psichiatria, nel rogo della sua stanza.

Il giudice ha rinviato gli atti alla Procura chiedendo di valutare la posizione del datore di lavoro, riconosciuto nell’ex direttrice generale del Papa Giovanni Maria Beatrice Stasi, e del Responsabile del servizio prevenzione e protezione, ruolo all’epoca ricoperto da Tatiana Ferrari.

Le omissioni dell’ospedale

Nel reparto dove la giovane era stata ricoverata – considerato peraltro ad alto rischio vista la tipologia di pazienti che vi vengono alloggiati – secondo il tribunale “emergono con prepotente evidenza tutta una serie di omissioni”. Nello specifico si sottolinea come le lenzuola del letto di Elena non fossero ignifughe ma in cotone; nella stanza erano presenti altri materiali infiammabili come pannoloni e carta da parati; la giovane è stata trovata in possesso di ben tre accendini, uno dei quali utilizzato per appiccare il fuoco.

In Psichiatria non erano presenti gli sprinkler, ovvero i dispositivi che in caso di incendio spruzzano acqua dal soffitto, in quanto ritenuti pericolosi per la sicurezza dei pazienti, che avrebbero potuto utilizzarli per gesti autolesionistici. Ma, ravvisa il giudice, non sono nemmeno state adottate misure alternative per ovviare a questa mancanza, come ad esempio gli impianti di aspirazione dei fumi caldi, presenti invece in altri reparti. Esistono in commercio degli sprinkler a scomparsa, che entrano in funzione solamente nel momento in cui scatta l’allarme antincendio, ma non furono presi in considerazione al momento della progettazione dell’ospedale né in un secondo momento. Verranno installati solamente in seguito alla morte della ragazza.

Non c’era nemmeno un dispositivo che bloccasse l’afflusso dei gas medicali: le fiamme sprigionate dalle lenzuola del letto di Elena Casetto quel giorno si alzarono rapidamente provocando il cedimento del controsoffitto. Proprio sopra la postazione della paziente passavano i tubi dell’ossigeno, che a causa del calore scoppiarono provocando una sovra ossigenazione dell’ambiente alimentando l’incendio.

Perché i due addetti non sono responsabili di omicidio colposo

Sono tre i punti fondamentali che hanno indotto il giudice a proclamare la sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste”. I due imputati, secondo l’accusa, si erano presentati sul luogo dell’incendio senza dispositivi di sicurezza. In base alle procedure, in caso di allarme, gli addetti devono raggiungere la zona interessata entro 8 minuti e senza dispositivi, e così fecero i due. Quindi non si verificò nessun ritardo rispetto al loro operato.

Verificata l’entità dell’incendio in Psichiatria, uno dei due addetti si diresse nel parcheggio dov’era posteggiato il furgoncino, indossò i Dpi e prese quelli per il collega che lo attendeva al piano, mettendoci in totale 4 minuti. Troppi, secondo l’accusa, ma non secondo il giudice che sottolinea come, anche se ci avesse messo la metà del tempo, l’azione non sarebbe servita a salvare la vita di Elena, morta tra le fiamme nel giro di pochi secondi.

Secondo la ricostruzione del pm, i due imputati avrebbero utilizzato gli estintori invece della manichetta, posta proprio fuori dalla camera della 19enne. Un comportamento corretto, secondo il giudice, dato che le procedure prevedevano proprio l’uso degli estintori, almeno in un primo momento, dato che le manichette, se srotolate, potrebbero creare difficoltà nelle operazioni di evacuazione del reparto.

Le tempistiche rispetto al momento del decesso di Elena Casetto sono state determinanti per emettere la sentenza di assoluzione, come spiegato nelle motivazioni. Secondo l’accusa la ragazza sarebbe morta nel giro di pochi minuti: oltre alla consulenza tecnica richiesta dal pm, ci sarebbero anche le urla della giovane udite dal personale e il fatto che la ragazza sia stata vista sbattere le gambe mentre era in corso l’incendio. Il giudice si è però basato sull’ipotesi offerta dalle ricostruzioni del perito e del consulente della difesa, che stabiliscono il sopraggiungimento dell’evento morte nel giro di pochi secondi. La carbossiemoglobina trovata nel sangue della vittima era del 16%, ciò significa che ha respirato per pochissimi secondi prima di morire. “Il dato, comprovato da accertamenti di natura scientifica, non può essere smentito dal fatto che gli infermieri abbiano udito le urla della Casetto, né dalla circostanza di aver osservato le sue gambe muoversi – si legge nelle motivazioni -. Quanto al primo aspetto, un dato di natura tecnico-scientifica non può essere smentito sulla scorta di un ricordato vociare e urlare, percepito in un momento di grandissima concitazione”. Le urla di Elena risalirebbero quindi agli istanti prima dell’incendio, quando la ragazza era stata sottoposta a costrizione con le cinghie perché in forte stato di agitazione. Quanto allo sbattere delle gambe “non sussiste prova che sia stato volontario o condizionato dalla combustione del suo corpo”.

I colpevoli non sono gli imputati

Alla luce di tutte le prove acquisite agli atti emergono “alcune chiare responsabilità in capo a soggetti diversi rispetto ai due imputati”, scrive il giudice. Inoltre, in seguito alla morte di Elena Casetto, era stata istituita una commissione da Ats che, in base a quanto riferito in aula da una dei membri, aveva concluso per “l’adeguatezza delle azioni poste in essere tramite il servizio sanitario aziendale”. In realtà il presidente della commissione tecnico valutativa dei rischi ha evidenziato “diverse carenze nella valutazione del rischio” e fa riferimento ad un allegato all’interno del quale è riportata una checklist che non è stata seguita a dovere. Se lo fosse stato il rischio incendio sarebbe stato nettamente minore e, forse, Elena si sarebbe potuta salvare.

 

Processo tribunale udienza sentenza
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