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La recensione

“Gli sconfinamenti della Pop Art”: al Donizetti la lezione di Costantino D’Orazio

Noto volto televisivo, storico dell’arte e neodirettore della Galleria Nazionale dell’Umbria, la sua lezione dal titolo “Andy Warhol e la cultura pop” ha concluso la prima serie di “Lezioni di Storia - la forza delle idee”

Bergamo. Che “pop” significhi sgargiante, giocoso e patinato è un falso mito. Parola di Costantino D’Orazio, noto volto televisivo, storico dell’arte e neodirettore della Galleria Nazionale dell’Umbria. La sua lezione dal titolo “Andy Warhol e la cultura pop” si è tenuta al Teatro Donizetti nella mattina del 24 febbraio, ultimo appuntamento della prima serie “Lezioni di Storia – la forza delle idee”.

D’Orazio ha dato una lettura efficace e documentata della pop art partendo dallo stesso termine che la qualifica: “La pop art è l’unico fenomeno culturale che dall’arte sia passato al costume mettendo a disposizione di tutti un termine che non cambia in qualsiasi lingua sia pronunciato  e questo non è successo per alcun altro movimento artistico”.

A sdoganare l’arte pop in Europa ci pensa nel 1964 la 32esima Biennale di Venezia.  Nel momento in cui giuria assegna a  Robert Rauschemberg  il leone d’oro , si scatenano le polemiche e le teorie complottiste che gridano all’invasione culturale e denunciano la sottomissione del mondo alle stesse regole del gioco politico. Ma ormai la cosa è fatta: la rivoluzione dell’estetica e del linguaggio artistico portata dagli artisti americani a Venezia sotto i riflettori di tutta Europa segna un punto di non ritorno per l’arte contemporanea a livello globale.

Ne è emblema “Buffalo II”,  realizzato e presentato da Rauschenberg nel 1964: si tratta della famosa tecnica mista su tela recentemente passata all’asta da Christie’s a 90 milioni di dollari segnando il nuovo record d’asta per l’artista americano. A colpo d’occhio è una sintesi del nuovo approccio pop: ideata all’indomani della morte di Kennedy, l’opera è un patchwork di immagini che fotografano l’attualità – il ritratto dell’ex presidente, flash dalla guerra del Vietnam e dalla corsa allo spazio – associate ad elementi gestuali di colore acceso e contrastato propri della pittura informale.

Più drammatico lo strappo di Mimmo Rotella sul volto di Kennedy, realizzato nello stesso anno, che sottolinea l’idea di morte e di assenza, laddove l’opera di Rauschemberg esalta piuttosto i valori americani. “Non è un lavoro patriottico”, tiene a sottolineare D’Orazio, “ma un’operazione artistica che registra i valori e il gusto di un intero popolo. E’ lo stato americano, piuttosto, che carica di significati patriottici un processo che entra ed esce dall’arte”.

Passando per altre opere emblematiche di Rauschemberg, da Monogram  (1955-59), un combine di carta, tessuto, metallo, legno gomma e ready made, a Pelican (1963), una coreografia danzata realizzata dall’artista e altri ballerini su una pista di pattinaggio  con indosso dei paracadute, lo storico dell’arte ha poi messo a fuoco la figura e il genio di Andy Warhol.

L’Autoritratto del 1963 fa parte degli autoritratti seriali che questo genio del design, della comunicazione  e dell’arte ha realizzato ragionando sulla propria immagine e manipolandola per “ometterne i difetti”, giocando in questo modo sulla discrasia tra l’aspetto e l’immagine della persona. Una ricerca concettuale, figlia dell’approccio di Sol Le Witt e di Joseph Kosuth fin dagli anni Cinquanta, che sposta il baricentro dell’arte sull’idea. “Senza questa elaborazione teorica”, fa notare D’Orazio, “il lavoro di Andy Warhol, che è filosofico e concettuale, non sarebbe esistito”.

Della “Factory”, lo studio originario di Warhol a New York City, serbano suggestiva documentazione gli scatti del fotografo italiano Ugo Mulas, mentre degli “sconfinamenti” pop dell’artista sono un documento eloquente le serie di cortometraggi da lui girati, tra cui “Sleep”, “Eat”, “Kiss”, in cui le riprese durano delle ore e  consistono in banali atti quotidiani, come dormire, baciarsi, mangiare, protratti all’infinito.

Proprio il concetto di sconfinamento, spaziale e temporale, oltre che tra generi e tra arte e vita,  è la chiave interpretativa per accostarci alla pop art e al mondo di Warhol, suggerisce lo storico dell’arte.  Sono sconfinamenti ad esempio le repliche seriali come le Green Coca Cola Bottles (1962) e le Marilyn Diptych (1962), così come i cumuli di Brillo Box (1964), ma anche le riletture  di intramontabili capolavori del Rinascimento come la Botticelli Venus (1984)  e il Pink Last Supper (1987), in cui l’artista negli ultimi anni “dimostra la sua capacità di trasformare in icona un’immagine che lo era già in un contesto diverso”.

Come dire, la pop art non è uno stile fatto di colori pieni e vivaci, qualcosa di vistoso, ludico e dai toni accesi, come banalmente qualcuno intende, pensando magari all’edonismo made in Usa. E’ qualcosa di più complesso, che affonda le sue radici nelle forme e nelle idee artistiche d’avanguardia del Novecento, passando senz’altro dal dadaismo, dall’arte concettuale, dalla pittura informale e da una profonda riflessione sul senso e la percezione della visione nell’età dei consumi.  “La rivoluzione che questi artisti hanno prodotto” conclude Costantino D’Orazio “ ha portato l’arte più vicina alla gente. Rauschemberg, Jasper Jones, Roy Lichtenstein e Warhol hanno realizzato un sconfinamento che fa bene a tutti noi”.

 

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