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La riflessione

Interventi psicologici di aiuto per imputati in carcere: il caso Alessia Pifferi tra etica, legalità e disposto art. 220 c.p.p.

Una serie di considerazioni sulla questione degli interventi psicologici in contesti carcerari, in particolare quando si tratta di detenuti imputati per reati rilevanti

L’attuale susseguirsi di avvenimenti di cronaca suscita una riflessione approfondita sull’Articolo 220 del Codice di Procedura Penale, che regola le misure cautelari personali. Nonostante tale disposizione non affronti direttamente gli interventi psicologici in carcere con detenuti imputati, è fondamentale considerare l’apporto di supporto e aiuto psicologico fornito dagli operatori del trattamento, quali educatori, assistenti sociali e poliziotti penitenziari, nei confronti dei detenuti imputati, basandosi sulla mia esperienza operativa in questo campo.

Mi rivolgo alla mia passata esperienza personale, poiché ritengo che, nella sua forma attuale, essa conservi elementi di validità e buone prassi, risalenti agli anni ’80, quando comparvero davanti al giudizio una nuova categoria di imputati, i pentiti di associazioni criminali. Su richiesta del Pm, furono attuati interventi di attenzione da parte del direttore del carcere, e da me di aiuto in quanto direttore dell’esecuzione non detentiva, escludendo ogni altra persona. Era mia convinzione e rimane tale, che per attuare un processo di aiuto e supporto fosse essenziale la presenza e l’ascolto, rimanendo silenziosi ma partecipanti, elemento che escludeva qualsiasi intervento sull’analisi del vissuto e ancor più su quello penale, mantenendo un distacco emotivo che negava ogni espressione di sentimenti, avvicinamenti personali come abbracci, commiserazioni e ancora meno espressioni assolutorie.

Essere asettici era e rimane per me l’approccio giusto, per evitare l’inserimento di elementi emotivi che potrebbero alterare lo stato emotivo dell’imputato e, di conseguenza, turbare il procedimento penale in aula durante la deposizione. Al personale che collaborava con me, chiedevo lo stesso comportamento, in particolare per gli interventi sul vissuto e psicologici, da negarsi con detenuti imputati specie se accusati di reati particolarmente efferati o fortemente impressionanti l’opinione pubblica per il risvolto mediatico che comportano. Questo per essere in conformità alle normative e alle decisioni del giudice.

Pur non trattando esplicitamente della somministrazione di test psicologici, l’articolo 220 del C.P.P. sottolinea l’importanza di garantire che gli interventi siano conformi alle disposizioni legali. In ambiente carcerario, uno psicologo può condurre valutazioni psicologiche per comprendere lo stato mentale e le necessità di trattamento di coloro che sono stati precedentemente giudicati, non certo degli imputati. Le manifestazioni atipiche di personalità, per gli imputati le considero di competenza del medico.

L’assistenza psicologica dovrebbe aiutare il soggetto nell’accettare i limiti di essere custodito e l’ineluttabilità del processo penale, dirigendosi a fronteggiare le conseguenze del procedimento penale o del giudizio della Corte. Questo intervento, come supporto al dramma legato al giudizio sul crimine commesso, è di enorme rilevanza e deve avvenire nel rispetto delle disposizioni legali e delle restrizioni imposte dal giudice.

Il ruolo dello psicologo all’interno del contesto carcerario nei confronti di un imputato dovrebbe concentrarsi principalmente sull’ascolto e sul supporto alla situazione detentiva, piuttosto che sull’analisi approfondita della personalità e dei dettagli legati al crimine in questione. Questa esortazione è rivolta a tutto il personale di trattamento e non solo agli psicologi, poiché devono essere consapevoli dei confini etici e legali delle proprie azioni, garantendo che i colloqui siano orientati al benessere psicologico del detenuto imputato senza interferire successivamente con le dinamiche processuali.

Queste precauzioni non sono necessarie per il detenuto giudicato definitivamente. Al fine di evitare possibili controversie etiche e legali, è essenziale distinguere tra supporto psicologico generale e somministrazione di test approfonditi. La validità dell’uso di test psicologici richiede il consenso informato dell’imputato, poiché potrebbe sollevare questioni etiche e legali, specialmente se condotti senza l’autorizzazione preventiva del giudice.

L’equità nel processo è un principio fondamentale, e qualsiasi intervento, inclusa la somministrazione di test, deve rispettare tale principio per garantire la ricerca della verità e la tutela dei diritti di tutte le parti coinvolte, sia della difesa che dell’accusa. Operare nel rispetto delle norme etiche e giuridiche non esclude nessuno, soprattutto se tale operato potrebbe sollevare dubbi riguardo a comportamenti impropri o cambiamenti significativi nell’atteggiamento dell’imputato, specialmente in aula durante il dibattimento.

Il colloquio con un imputato in carcere dovrebbe essere un intervento di ascolto e supporto alla situazione detentiva, non un’analisi psichica approfondita della personalità o dei fatti legati al crimine, poiché questi aspetti rientrano nella sfera del dibattimento in aula. In sintesi, la presenza di operatori esterni, come gli psicologi, nel contesto penitenziario quando incontrano soggetti detenuti imputati, richiede un’attenta consapevolezza delle implicazioni etiche e legali delle proprie azioni.

 

Lacrime, psicologo, dramma, violenza (Foto pexels)

 

Riconfermo la mia opposizione a colloqui approfonditi quando toccano elementi legati non solo alla sfera personale dell’imputato, ma anche al processo, poiché possono portare a un cambiamento del modo di atteggiarsi in aula dell’imputato, con un conseguente cambiamento di personalità. Fornire un supporto psicologico appropriato, nel rispetto dei limiti imposti dalla legge e garantendo un processo equo per tutte le parti coinvolte, appare l’approccio corretto.

In conclusione, la somministrazione di test psicologici richiede una riflessione attenta sulla legalità e sull’etica degli interventi psicologici in contesti carcerari, in particolare quando si tratta di detenuti imputati per reati particolarmente rilevanti. Il rispetto dei principi giuridici fondamentali è cruciale per garantire un processo equo che tuteli i diritti sia dell’accusa che della difesa.

Antonio Nastasio*, è un ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza

 

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