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In bergamasca

Martinengo, l’omicidio pochi mesi dopo il dramma fotocopia di Nembro: quel disagio spesso sottovalutato

Il caso di Caryl Menghetti riporta alla mente quello di Matteo Lombardini: entrambi con problemi psichici, erano stati accompagnati in ospedale e poi dimessi prima di uccidere rispettivamente il marito e il padre. Maria Fantini (Associazione Aiutiamoli): "Certi pazienti andrebbero seguiti anche a domicilio, ma non c'è personale"

Martinengo. Probabilmente – anzi sicuramente – non ce n’era bisogno: fin troppo spesso, casi come questo affollano le pagine dei quotidiani e riempiono le immagini dei servizi in tv. Ma quanto successo giovedì sera a Martinengo non può non portare ancora una volta alla ribalta l’annosa questione della gestione di persone con problemi psichici, della loro cura e della possibilità (o impossibilità) di prevedere azioni così tragiche.

La mattina del 25 gennaio Caryl Menghetti, 46 anni, era stata accompagnata dal marito Diego Rota in ospedale a Treviglio. A quanto pare, la donna aveva manifestato intenti violenti verso il coniuge, ma dopo la visita in Psichiatria sarebbe stata dimessa con una terapia farmacologica, con la semplice indicazione di rivolgersi al medico di base. Nemmeno ventiquattrore dopo Rota, falegname di 56 anni, è stato ucciso con almeno dieci coltellate nella sua camera da letto, a pochi metri di distanza dalla stanza della figlioletta di 5 anni.

Nel passato della loro storia, al momento, non sembrano addensarsi grosse ombre: nessuna traccia di maltrattamenti o violenze; ragione che spinge gli investigatori a pensare che ad armare la mano della moglie non sia stato altro che il suo disagio psichico, secondo quanto filtra fatto di allucinazioni, pensieri ossessivi, strane e bizzarre convinzioni, alcune delle quali rivolte proprio verso il marito.

Dal punto di vista della cronaca, il nuovo anno in Bergamasca si è aperto proprio come si era chiuso quello vecchio, segnato da una drammatica sfilza di tragedia familiari, con il disagio psichico dei protagonisti a fare spesso da filo conduttore. In questo senso, il caso di Martinengo non può non riportare alla mente quanto avvenuto soltanto lo scorso ottobre a Nembro, quando il 35enne Matteo Lombardini uccise a coltellate il padre Giuseppe pochi giorni dopo avere chiesto aiuto in ospedale.

 

Nembro, omicidio Lombardini
Da Martinengo a Nembro: i fiori all'esterno dell'abitazione di Giuseppe Lombardini

 

Matteo aveva avvertito le persone che gli stavano attorno. Diceva di non sentirsi granché bene, alludendo al suo problema di natura psichica. Colpa di quelle che – usando un termine medico – vengono definite  allucinazioni uditive (molto più semplicemente, le “voci” che diceva di sentire e che erano tornate a stiparsi nella sua mente, fino a fargli perdere il controllo). Anche lui era stato accompagnato al pronto soccorso. Quello più vicino a casa, ad Alzano Lombardo, ma anche in questo caso non si era ritenuto opportuno il ricovero. “Quattro giorni prima della tragedia aveva chiesto aiuto facendosi accompagnare all’ospedale, ma qui gli è stato risposto che non c’era posto – aveva raccontato alla stampa il cognato -. Ora passerà per il carnefice dei suoi genitori, ma non posso smettere di pensare che anche lui sia una vittima del sistema”.

“Quelli di Nembro e Martinengo possono sembrare casi simili, ma forse soltanto all’apparenza”, osserva Maria Fantini, presidente dell’associazione Aiutiamoli, vicina ai familiari delle persone con problemi di salute mentale. Matteo Lombardini, per esempio, era stato in cura a un Cps (centro psico-sociale) ed era seguito da un professionista a Brescia, mentre Caryl Menghetti non risultava in cura presso alcun centro, anche se qualche anno fa sarebbe stata sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio. Matteo viveva con i genitori (72 anni il padre, 66 la madre), mentre Caryl poteva contare anche sul marito.

“Ogni storia ha una sua complessità, va analizzata a fondo e sarei molto cauta nell’attribuire responsabilità allo psichiatria di turno, che purtroppo non ha la sfera di cristallo – ammonisce Fantini -. Da vent’anni ci occupiamo di queste problematiche e posso dire che il personale sanitario in grado di seguire determinati pazienti è davvero ridotto. Una volta dimesse dagli ospedali e dai reparti di Psichiatria, queste persone andrebbero seguite anche a domicilio. Noi, come associazione, stiamo portanto avanti un progetto finanziato dagli ambiti territoriali di Dalmine, Isola Bergamasca, Treviglio e Romano, oltre che dalla Fondazione della Comunità Bergamasca, per far sì che gli operatori di alcune cooperative vengano inviati al domicilio di queste persone, segnalate dai Cps o direttamente dai Comuni”.

L’obiettivo è quello di inserirle progressivamente in realtà di socializzazione. “Come gli oratori o la Croce Rossa, facendo svolgere loro qualche piccola attività – aggiunge ancora Fantini -. Il martedì e il sabato pomeriggio frequentano il nostro spazio a Bonate Sopra. Fanno arte-terapia e pet-therapy (terapia tramite animale da affezione, ndr) abbinata a momenti ludici. Se non c’è domiciliarità e non ci sono progetti – osserva la presidente dell’associazione – è più difficile tenere sotto controllo le singole situazioni. Tutto varia da patologia a patologia – precisa -, ma anche persone all’apparenza tranquille possono avere comportamenti pericolosi e il rischio di sottovalutare certi segnali è concreto. Inoltre, negli ospedali – conclude – i posti per seguire questo genere di pazienti sono sempre pochi, a fronte di un numero purtroppo alto di casi”.

Conseguenza della mancanza di risorse e strutture sono i frequenti disagi nei reparti ospedalieri di Psichiatria, nelle carceri e inevitabilmente nella famiglie. Con la sensazione che fatti che emergono siano solo la punta di un grosso, grossissimo iceberg.

 

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