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Festival città impresa

Ripensare il mondo della moda si può fare: come la “fast fashion” impatta sul nostro mondo

Una maggiore divulgazione e nuove regole per il mercato della moda in Italia ed Europa. A Festival Città Impresa, promosso da Italy Post e L’Economia del Corriere della Sera, un dialogo su come rendere il settore sostenibile

“È l’ora di abolire la fast fashion?”– la domanda che dà il titolo all’evento inserito nel calendario di Festival Città Impresa e svoltosi venerdì 10 novembre presso l’Auditorium Ermanno Olmi – “Non è una domanda retorica. È una domanda tossica”. Esordisce così Andrea Crespi, vice presidente Sistema Moda Italia (SMI) con delega alla Sostenibilità.

“Bisogna stare attenti a puntare il dito contro la fast fashion perché non è il cosa ma il come” continua infatti Crespi ricordando che è sempre più necessario informare le nuove generazioni su “come” vengono prodotti i capi di abbigliamento. Per questo principio non ci si deve unicamente concentrare sull’eliminazione delle fibre sintetiche ed artificiali – come viscosa o poliestere – bensì sulla riprogettazione a 360 gradi del modello di business delle case di moda.

È questo il vero punto su cui insistere anche per l’altro ospite dell’evento Matteo Ward, amministratore delegato e co-fondatore di Wråd, agenzia creativa che si batte per un’industria della moda più sostenibile: “Non è una questione di prezzo ma di un modello di business basato sulla sovrapproduzione puntando al sovraconsumo delle persone”.

Tale modello, come argomentato dallo stesso Ward, ha messo radici nella nostra società fin dalla fine XVII secolo quando Re Luigi XIV, su ispirazione del suo Ministro delle Finanze Jean-Baptiste Colbert, inventò quello che oggi conosciamo come “cambio armadio”. Il tutto poi alimentato dalla rivoluzione industriale, che ha fornito la tecnologia, e dalle nuove scoperte della chimica, che hanno portato al superamento dei limiti delle fibre naturali come il cotone.

Gli effetti della fast fashion nel mondo

Per raccontare le storture di questo modello d’impresa, Ward ha realizzato quest’anno in collaborazione con Sky e Will Media la docu-serie “Junk – Armadi pieni”, un viaggio tra Sud America, Sud-est asiatico e Africa a testimoniare gli effetti devastanti sulle persone e sull’ambiente dell’industria della moda.

“È impensabile che quando vai a donare i tuoi vestiti usati in realtà stai cambiando la morfologia di un posto, esattamente com’è successo in Ghana”, osserva. In quella puntata Ward esplora il mercato di Kantamanto, dove ogni settimana arrivano 15 milioni di capi usati, di cui più della metà vengono buttati.

Un altro caso esemplare è la distruzione delle foreste pluviali in Indonesia – con l’avallo governativo – per la produzione di viscosa. Per testimoniare in prima persona i danni arrecati all’ecosistema, entrando all’interno di un’area vigilata da forze militari, Matteo Ward è un ricercato per lo stato indonesiano. “Ne sono orgoglioso”, commenta l’imprenditore ed attivista.

“Junk – Armadi pieni” avrà poi un sequel, per mostrare anche le buone pratiche per cambiare lo status quo? Matteo Ward commenta: “Sarebbe bellissimo. Non posso dire che è discussione ma ci sto pensando da un po’. Abbiamo provato con Junk a mettere in un episodio un aspetto positivo ma l’obiettivo primario era mostrare ciò che non funziona perché non si può cambiare ciò che non vediamo. Il “contro-Junk” dovrebbe essere aiutare ad innamorarsi di nuovo del proprio guardaroba”.

Proprio in merito agli effetti globali della fast fashion è importante l’intervento – da remoto – della terza ospite, Maxine Bedat, fondatrice del New Standard Institute e autrice de “Il lato oscuro della moda” (Post Editori). Anche Bedat ha compiuto un giro del mondo per scrivere il suo bestseller, seguendo il ciclo di vita di un paio di jeans, dalla sua produzione al suo smaltimento, mettendo a nudo gli abusi sull’ambiente e sui lavoratori.

Importanti e rivelatori per Bedat sono stati gli incontri in Bangladesh e Sri Lanka: “È stato un onore passare del tempo con le donne che realizzano i nostri vestiti, nelle loro piccole case grandi quanto il mio ufficio dove però vivono con il marito e 2 bambini. Loro sognano un’esistenza diversa per i loro figli e la loro vita potrebbe essere incredibilmente migliore se solo noi cambiassimo un poco la nostra industria”.

Nuove regole in Italia ed Europa

Secondo Andrea Crespi, tuttavia, si può guardare con ottimismo al futuro: “Nei prossimi 5 anni vedremo ciò che non è accaduto negli ultimi 20”. I grandi investimenti nel settore del riciclo stanno infatti alimentando un nuovo business che vede l’Italia in prima linea, non solo per la sua tradizione nel settore tessile.

“È ancora la seconda manifattura italiana con 40mila aziende e 400mila addetti” continua Crespi “e in Italia le aziende del settore rappresentano un’eccellenza perché sono attente ad evitare lo spreco, in primis per ragioni economiche”.

I primi passi in avanti in materia, a livello europeo, contemplano la direttiva UE 2018/851, che impone agli Stati Membri entro il 1 gennaio 2025 (l’Italia l’ha già adottata nel 2022 grazie al decreto legislativo n. 116 del 2020) di raccogliere i rifiuti tessili mediante cassonetti dedicati che consentano la separazione del rifiuto sia per tipologia di scarto che di fibra.

Arriverà sempre nell’Unione Europea – entro e non oltre il 2030 – anche il Digital Product Passport, l’evoluzione dell’etichetta odierna, meglio paragonabile ad una carta d’identità del capo d’abbigliamento. Permetterà di conoscere l’intero ciclo produttivo del vestito per acquisti ancora più consapevoli.

Queste sono solo le prime misure che possono favorire un cambiamento che, secondo Matteo Ward, “deve ripartire dalle fondamenta perché se uno immagina l’industria della moda come un palazzo pericolante a rischio sismico e anziché sistemare le fondamenta si parte dal tetto, non ha senso. Stiamo partendo da “Riduciamo le microplastiche” ma non c’è un reale progetto per ridurre la produzione e il consumo di fibre plastica, allora come fai?”.

“Il mio lavoro ad oggi è sempre un lavoro politico, che abbia la forma di una maglietta o di un progetto” – conclude Ward, ricordando come voltandosi indietro si possano trovare strumenti ed idee per cambiare il domani – “stiamo cercando di generare consenso verso un nuovo modo di fare moda che guarda al passato per proiettarsi nel futuro”.

Cita infatti il testo in cui il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti descrive la tuta come uniforme perfetto evidenziando come in quell’abito “non si parlava di nient’altro se non di eccellenza, qualità ed amore per l’industria tessile”. Ovvero tre parole chiave da cui ripartire.

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