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“Andiamo a trovare” i nostri cari morti

Novembre si apre con fiori e preghiere su tutte le tombe: i cimiteri come luoghi di memoria, di identità e di appartenenza per ogni comunità

Il calendario riporta quasi tutti, almeno una volta all’anno, a inizio novembre, nei cimiteri. Ci ritorniamo dopo essere passati attraverso l’esperienza del Covid, che ha visto anche la chiusura delle chiese e – durante i lunghi mesi di lockdown – anche dei cimiteri, con accessi limitati a un ristretto numero di stretti congiunti in occasione degli stessi funerali.

La gente, soprattutto nei paesi, parlando dei propri defunti, usa dire con bella immagine che ‘va a trovarli’, che ha un significato di vita e intensità affettive perduranti. Se ‘andiamo a trovarli’, siamo noi, in definitiva, i beneficiati da questi incontri.

Viviamo in un tempo che ha ricominciato (comprensibilmente) a celebrare la spensieratezza. Non siamo ancora del tutto usciti dal lungo tunnel di insicurezze che annebbiano i confini del domani. E il panorama internazionale è angosciante. Pensiamo soltanto alle guerre tra Russia-Ucraina e Israele-Gaza, due conflitti di quella terza guerra mondiale combattuta a puntate di cui ha parlato Papa Francesco.

La modernità, con le sue conquiste, non ama parlare né sentir parlare di morte, parola cancellata dal vocabolario e anche dagli annunci funebri, dove al verbo ‘morire’ si preferisce il sinonimo ‘scomparire’. Passi per ‘è mancato’, ma comunicare che ‘è scomparso’, lo vediamo bene che è un controsenso. Un uomo, una donna, al tramonto dei loro giorni, non scompaiono: defungono. Vengono meno a una funzione, alla vita: ma continuano nel ricordo. E perciò andiamo ‘a trovarli’.

Identità e appartenenza – Padre Turoldo e Leo Manfrini

I cimiteri sono diventati ancora di più il luogo dove ci si incontra, ci si rivede, si fa memoria di chi ci ha preceduto, ma anche del nostro tempo passato, di amicizie lontane che poi si sono un po’ sfilacciate negli anni per effetto della lontananza. Tra i viali dei cimiteri c’è l’identità di un paese, si vive l’appartenenza.

Ho conosciuto e conosco intellettuali e inviati speciali che mettono i cimiteri tra i primi posti delle loro frequentazioni. Penso a Turoldo che andava “a trovare i morti, che sono più vivi dei vivi e ci fanno compagnia e ci vedono dal di dentro”. Confessava che dalle tombe traeva l’ispirazione per cantare inni alla vita: ha dato un’anima poetica ai Salmi. “La morte è una componente della vita, una compagna, capisci? In essa trovo equilibrio e da essa traggo forza e coraggio”.

Nel documentario ‘L’eterno ragazzo del Friuli’, del regista televisivo svizzero Leo Manfrini, è fissato un momento densamente umano delle visite di Turoldo al cimitero di Fontanella, poco distante dalla sua abbazia di S. Egidio. Era un giorno d’inverno e sulle nude piante c’era un vestito di galaverna che luccicava al timido sole. Dopo la benedizione impartita sulla tomba di una giovane madre, il frate friulano già minato dal “drago insediato al centro del ventre come un re sul trono”, proseguì verso il fondo del cimitero. Poi, alzando sicuro il braccio, puntò l’indice e spiegò: “Guarda quelle piante, le vedi, Leo? Sembra che la vita sia morta in loro e invece dentro si preparano per altre esplosioni, percorse dalla linfa che farà sbocciare nuove gemme dopo il freddo dell’inverno”. Dopo un paio d’anni vi sarebbe stato sepolto egli stesso e dal 30 maggio 2016 vi riposa anche il cardinale Loris F. Capovilla, per una scelta di vicinanza al ‘suo’ Papa Giovanni e allo stesso frate e intellettuale friulano.

Anche il regista e inviato speciale Leo Manfrini teneva i cimiteri come una importante bussola per cogliere il clima umano dei luoghi di mezzo mondo in cui si recò, raccontandocelo nei suoi densi reportage. E non era raro incontrarlo nei suoi cimiteri di riferimento, il paese dove abitava, Savosa, e quello dov’era nato, Cademario, che ricorrono nelle narrazioni delle pagine del suo ultimo libro ‘Sigarette e cimiteri’ (ed. Dadò), dove ‘colloquia’ con i familiari e gli amici.

Aggiungiamo un’altra figura popolare, Costantino Locatelli, professore, storico e intellettuale raffinato che nelle sue rimembranze parlava e scriveva spesso del culto dei defunti. C’era un ricordo ricorrente per i momenti e i riti che chiudevano le serate autunnali, con prolungamento nell’inverno: il ‘rispondere’ al rosario nel caldo umido della stalla, spesso guidato a suo modo dalla Céa, con interruzioni plurime. Puntuali e immancabili il ‘Pater‘ de ‘mòrcc‘ (Morti) e la ‘Salveregina‘ alla Madonna della Cornabusa; poi si spalancava l’uscio della stalla e c’era la ‘buona notte a tutti’ con fretta comune, perché da ‘Cataiòc‘, a Selino Alto soffiava un’aria raggelante. Chi per ultimo usciva dalla stalla spegneva la lampada: fuori c’era la luna e nel cielo terso le stelle stavano a guardare…

Noi continuiamo a distinguere i ‘vivi’ e i ‘morti’ come fossero contrapposti gli uni agli altri: è una povertà del nostro linguaggio. Lo scrittore e romanziere Piero Chiara si recava con la mamma tra le tombe “come un superstite che cerca le tracce di un mondo scomparso e tenta di ricostruire la storia”. Lui si aggrappava con l’immaginazione a un nome e a una data e gli apparivano “vite intere, vicende romanzesche. Gioventù, bellezza e sapore di vita erano cose che trovavo nel cimitero”. Lì ci sono la misura del tempo passato, un viaggio tra i ricordi e, per chi crede, la prospettiva di un riabbraccio in una luce senza fine.

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