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Arte

I bestiari

L’uomo e il fardello della guerra. La pace? Sarebbe la più grande rivoluzione di specie

Giovanni Fornoni questa volta affronta il tema del conflitto, della guerra e della pace. L'arte che sa sempre guardare oltre, aiuti l'uomo a posare il suo sguardo oltre confini di filo spinato e guardi con fiducia alla prosperità della pace

“Prima mi sono vergognata. Poi ero incredula delusa. Come bocciata. Tutta una specie ritornata indietro. Alle bastonate. Maschi al comando ancora, con i vecchi randelli trasformati in armate, missili, carri armati, corazzate, tutta un’esibizione muscolare così evoluta – e le teste invece rimaste indietro, alla predazione, alla  zampata feroce su qualcuno che trema. Solo dopo è arrivata la pena. Solo dopo sono entrata dentro un gonfio di lacrime tenute. E il dolore dei miei umani casi si è fuso insieme al dolore per loro, i morti, gli scampati i feriti lasciati lì in un fosso, i rifugiati. E se adesso piango a volte – non so per chi o per che cosa, tanto sono confusa. Un dolore non grave però, il mio, spesso sospeso, un dolore che non mi toglie ancora l’appetito e posso guardare i notiziari, continuando a mangiare, sopportare ancora lo stridore della pubblicità col suo falso prometterci le cose. Come si fa a provare un dolore vero. Come si fa da quel dolore sentir nascere un atto vero di pace. Come si fa ad esser solidali fino alla radice. Allora forse troveremmo strade impensabili ora. Accordi fra nemici talmente inaspettati. Soluzioni di tregua permanente, abbracci molto attesi, terreni condivisi, confini più sfumati. Allora la terra intera sarebbe nostra alleata, tutti i pesci sotto le corazzate, gli uccelli disturbati dai fumi e dai boati, i tronchi, le radici che stavano aspettando la loro primavera. I gatti per le strade, i cani, i lombrichi, le api. Tutto sarebbe alleato con noi, dentro la pace. Ce ne verrebbe una gioia vera, una potenza di creazione – proprio il contrario di questa morte dei corpi e delle cose. Sarebbe la più grande rivoluzione di specie: risolvere i conflitti col nostro ragionare intelligente – in compassione. Risolverli parlando e tacendo, donne e uomini insieme, con ricorrenti abbracci a ricordare ciò che più vogliamo, il nostro fine supremo. Stare nella pace. Abitare la terra in un respiro grato. Noi, ultimi arrivati”.
Mariangela Gualtieri

L’etimologia della parola guerra deriva dal tedesco antico e “wërra” (mischia) – radicandosi nel latino parlato comunemente detta “bellum” – quando i Romani subirono i violenti attacchi da parte dei popoli Barbari; tuttavia facendo un ulteriore passo a ritroso nella storia, è naturale chiedersi se fin dalla preistoria la guerra faceva parte della vita degli esseri umani. Gli studiosi delineano due strade percorribili, la prima – secondo la quale il conflitto, la violenza e le atrocità dell’uomo sull’uomo erano e rimangono comportamenti insiti degli esseri umani; mentre la seconda colloca la nascita della guerra con la scoperta dell’agricoltura, quando l’uomo da nomade a stanziale iniziò a difendere la propria terra e con essa i suoi confini dagli attacchi dei predatori.
Studiosi del comportamento animale hanno invece osservato gli scimpanzé, in quanto strettamente imparentati con l’essere umano, aprendo due ipotesi. La prima, secondo la quale questo animale è l’unico in natura ad attuare delle vere e proprie guerre, simili a quelle umane nella sua brutalità, questo potrebbe portare alla riflessione che l’atavico impulso alla violenza è insito e connaturato anche nella specie umana. L’altra ipotesi invece, sostiene che la violenza tra gli scimpanzé è dovuta a innumerevoli fattori, non necessariamente istintivi, pertanto i conflitti tra esseri umani potrebbero essere causati da costrutti sociali, tra i quali potere e denaro, e che se rivisti e/o rimossi potrebbero riportare l’essere umano al suo pacifico stadio in natura. Insita o conseguenza difensiva di un “qualcosa” che ci appartiene o che pensiamo ci appartenga, la guerra – fra torto e ragione, continua a essere parte integrante dei nostri tessuti geopolitici. Ancora oggi la rivendicazione del territorio è causa di conflitti e rivendicazioni disumane, ed è quello che ha riacceso – in queste settimane – il conflitto tra Israele e Palestina.
Gli ebrei rivendicano il diritto storico a Israele, avvalendosi della loro storia millenaria, mentre i palestinesi ribadiscono di essere stati spodestati dalle loro terre, nel 1948, durante la creazione dello Stato di Israele. A complicare ulteriormente le dinamiche si aggiunge la questione religiosa poiché Gerusalemme è sacra a ebrei, musulmani e cristiani, e queste tre religioni monoteiste rivendicano quindi il controllo sui luoghi sacri della città, le quali portano, loro malgrado, continue tensioni e profondi conflitti.

bestiario - bellum


Bellum
– collage fotografico, vernice spray – 30×40 cm. 2023

Stabilire chi ha ragione, implica la necessità di schierarsi e forse ne consegue il fatto che questi interrogativi creano ulteriori e inopportune distanze, le quali impediscono di percorrere un terreno di confronto e quindi di favorire un dialogo di pace e bene comune. Le posizioni contrastanti, il frastuono dei bombardamenti, il massacro di persone innocenti, sono contrapposte all’espressione artistica che cerca di capire, mediare e riappacificare. Anche l’arte ha vissuto e vive queste atrocità tramite un crocevia di artisti che nel corso della storia hanno denunciato orrori e mostruosità, rendendoli pagine indelebili della storia umana, scardinando le nostre coscienze e le nostre imperterrite convinzioni.

Lo sa bene, Bracha L. Ettinger, Israeliana, classe 1948 – artista visiva, filosofa e psicanalista, le cui indagini psicanalitiche e non solo, hanno influenzato molte delle attuali teorie sull’arte contemporanea, in un dialogo costante tra individuo e collettività. La ricerca artistica di Bracha L. Ettinger attinge nel suo passato autobiografico e nella storia dei suoi genitori sopravvissuti all’Olocausto, approfondendo quindi i concetti di trauma, tragedia della guerra, condizione umana, oblio, femminilità e inconscio.
È stata insignita con l’alta medaglia per eroismo di guerra, perché ha guidato la più grande operazione di salvataggio nella storia del Medio Oriente, nel 1967, rimanendo ferita mentre aiutava giovani vite che stavano annegando. Tra le sue opere, significativa è la serie di dipinti chiamati “Euridice” – dei quali, in un’intervista a Il Giornale dell’Arte, l’artista ha dichiarato: “I miei dipinti della serie “Euridice” hanno come immagine principale le donne e i loro bambini denudati prima di essere fucilati, durante la Seconda guerra mondiale. Partendo dal silenzio dei miei genitori sul destino dei miei antenati, ovvero i loro stessi genitori, e affrontando questi fantasmi nel momento presente per cogliere la diffrazione delle loro tracce, lavoro ogni giorno creando bellezza senza occultare questa violenza, tenendone conto per trasformare il futuro. Utilizzo quindi le immagini che mi ossessionano come materiale primario. Ma sono immagini già trasformate, fluttuanti, tracce lavorate con certe tecniche di mia invenzione, ancor prima di iniziare a dipingere, così che si trasformino in polvere; appena le tocco, spariscono. È il mio lavoro, quindi, a farle riapparire. Durante il processo artistico emerge un singolare rapporto con l’inconscio attraverso il languore, l’oblio, la diffrazione. Di chi è la memoria in gioco quando ci si appropria di queste immagini? Il lavoro astratto dell’inconscio profondo costruisce un “evento-incontro” in cui riunirsi e anche testimoniare”.

Da questo si evince quanto l’arte quindi, per Ettinger, sia strettamente connessa alla capacità umana di contenere e trasmettere la propria rabbia e il proprio dolore, trasformando orrori e violenza in relazioni etiche attraverso nuove forme di contrattazione che danno vita a bellezza e fiducia affinché si possa sopportare con compassione, l’orribile e il disumano. L’arte è quindi madre e funziona come un accudimento materno contro tutti i mali, è meraviglia, stupore, compassione, cura e fiducia. Quando la guerra uccide la fiducia, l’arte è lo spazio in cui può riemergere la fiducia nell’altro e per estensione, nell’essere al mondo.

Se la ricerca artistica dell’Israeliana Bracha L. Ettinger attinge da propri vissuti personali, lo sguardo dell’artista Emily Jacir nata a Betlemme, classe 1970 – riflette, invece, la dimensione territoriale della Palestina attraverso tematiche quali: il viaggio, l’esodo, gli sfollati, i rifugiati, alternando memoria e realtà, portando alla luce narrazioni ed esperienze collettive correlate ai luoghi Palestinesi e ai suoi trascorsi.
La ricerca di Emily Jacir si è distinta in più occasioni, tuttavia le menzioni e i premi prestigiosi a lei assegnati, non sono mancati di critiche feroci e attacchi di ogni sorta. Celebre l’opera dal titolo “Memoriale” un’installazione in cui sulla superficie di una tenda per sfollati, l’artista con ago e filo ha ricamato pazientemente i nomi di 418 villaggi palestinesi distrutti, spopolati e occupati da Israele nel 1948. Toccante l’opera “Da dove veniamo” l’artista si è fatta portatrice in una performance, chiedendo ai suoi connazionali palestinesi di poter esaudire un loro desiderio, facendo eco ai loro pensieri, in una sorta di “adempimento dei desideri su richiesta” sfruttando il suo passato statunitense e quindi la sua libertà di poter viaggiare in diverse parti della Palestina e di Israele, l’artista ha potuto svolgere commissioni per amici e conoscenti, ricevendo una serie di richieste – alcune pragmatiche e “leggere”, altre molto intime e profonde – le quali hanno portato l’artista ha produrre testi, fotografie e film, documentando l’impatto della situazione politica sulla vita quotidiana dei palestinesi.

Jacir ha esplorato inoltre, l’assurdità e la tragedia delle restrizioni del viaggio, nell’opera video “From Texas with Love” evidenziando la frustrazione causata dai molteplici ostacoli che i palestinesi, nei loro spostamenti quotidiani, sopportano a causa di estenuanti checkpoint e altrettanti controlli alle frontiere. È salita su un’auto in Texas guidando per un’ora di fila senza fermarsi, filmando la strada davanti a sé. L’opera video è accompagnata da canzoni che i palestinesi le hanno inviato, rispondendo alla sua domanda: “Se tu avessi la libertà di salire in macchina e guidare per un’ora senza essere fermato, quale canzone ascolteresti?” – Dagli spazi territoriali sconfinati a quelli del suono, in “Entry denied – a Concert in Jerusalem” tre musicisti sono ripresi mentre suonano in un teatro vuoto. L’opera video prende spunto da fatti realmente accaduti. Uno dei tre musicisti, residente in Austria ma di origine palestinese, al suo arrivo all’aeroporto di Tel Aviv, poco prima del concerto, è stato trattenuto dalle autorità, imprigionato e poi rispedito a Vienna. Sebbene il musicista avesse ricevuto inviti ufficiali e avesse un visto valido e confermato dal Ministero degli Esteri Israeliano, le autorità gli hanno proibito di entrare nel Paese per “ragioni di sicurezza” bloccando quindi l’esibizione.

Jacir, ha trasposto quanto accaduto, realizzando un video e proiettandolo su un muro temporaneo, metafora del limite umano, dell’ostacolo che si contrappone nei rapporti interpersonali. Possiamo quindi sostenere che la forza del lavoro di Jacir sta nel fatto che rivela a un vasto pubblico la realtà complessa e ampiamente stratificata della Palestina, un territorio descritto dal defunto Mahmoud Darwish – considerato il poeta nazionale della Palestina – come un paese di parole. Che sia a causa dei confini ridisegnati, dei villaggi e delle città cancellate, o dell’esperienza dell’esilio, la Palestina è un luogo spesso evocato attraverso parole e ricordi, ed Emily Jacir, attraverso la sua pratica artistica, aiuta a riunirne i lembi con la sua gente, parlando a favore di tanti palestinesi che non hanno modo di essere ascoltati.

Il grande filosofo Francesco Bacone diceva: “L’uomo che accarezza l’idea di vendetta continua ad esasperare le proprie ferite, senza permettersi di chiuderle”.

Giovanni Fornoni ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. All’attività di artista affianca quella di docente. Con i suoi Bestiari sovrappone o accosta la condizione umana a quella animale, indagando simbolicamente fatti di cronaca contemporanea, mettendo in rilievo verità ataviche, antropologiche, sociali e culturali.

Immagine dell’opera: Bellum – collage fotografico, vernice spray – 30×40 cm. 2023
Freepik archive, image reworked by the Artist

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