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Arte

I bestiari

“L’abito ha contribuito, in tutte le epoche, a plasmare l’umanità”

Il pavone è l'animale protagonista di questo Bestiario di Giovanni Fornoni. Questo splendido volatile non poteva che far ricadere la sua attenzione sul modo di apparire, di mostrarsi e quindi quanto conta l'abito

Ho incontrato Alessio Francesco Palmieri Marinoni, Storico del Costume e della Moda per indagare, grazie al suo contributo, “l’abito” nella sua evoluzione storica e artistica, specchio della nostra condizione sociale, politica e culturale e per smitizzare alcune ataviche convinzioni e con esse alcuni stereotipi correlati agli usi e costumi
del nostro vivere.

Che cosa si intende per Storia del Costume?

Prima di risponderti, voglio ringraziarti per questa prima domanda. È estremamente raro che mi si chieda di spiegare la disciplina della quale mi occupo. Premetto che
oggi raramente si usa la definizione “Storia del Costume”, optando sempre di più per altre due definizioni quali “Storia della Moda” o, in alternativa, “Storia dei vestimenti”, quest’ultima una definizione più ministeriale e fredda. La querelle terminologica è determinata da una questione interpretativa, ovvero stabilire – in base a criteri legati alla sartoria, all’economia, all’aspetto linguistico – quando inizia la moda e quando termina il costume. Di questo aspetto ne parla in maniera esaustiva Marco Belfanti in Civiltà della Moda (Il Mulino, 2008). Personalmente preferisco utilizzare la vecchia definizione, ovvero “Storia del Costume”, in quanto il mio ambito di ricerca non supera mai gli Anni Cinquanta dell’Ottocento, ovvero dal momento in cui il legame tra prodotto moda e consumo è strettamente interconnesso. Credo, inoltre che il termine “costume” sia da preferire perché sottintende una complessità di fattori che non possono ridursi al solo oggetto abito e, in aggiunta, vi è una importante assonanza con l’agire, il pensare e il comportarsi. La mia è una disciplina articolata che presuppone sempre un lavoro di équipe. Mi spiego. La “Storia del Costume” indaga l’oggetto abito in relazione alla società che l’ha prodotto, sia in termini materiali, sia in una prospettiva antropologica e sociologica. Lo storico del costume, oltre a studiare l’oggetto – quando superstite – indaga tutte le fonti iconografiche e documentarie, sino a considerare numerosi altri aspetti pratici (per esempio, la sartoria, la tessitura, etc.). La mia disciplina studia la funzione del vestire nella quotidianità, nella ritualità o sulla scena con lo scopo, sì di comprendere il passato, ma soprattutto per capire il presente. Come dicevo prima è un lavoro di équipe: lo storico del costume lavora a stretto contatto con altri specialisti come lo storico del tessuto, del ricamo, del merletto, dell’accessorio, della calzatura, del trucco e del parrucco sino a considerare discipline poco note come per esempio l’oplologia, ovvero lo studio delle armi e delle armature. In linea generale, allo storico del costume vengono sottoposte le più svariate opere e gli si chiede di definire – attraverso una terminologia specifica suscettibile di innumerevoli variazioni lessicali che devono essere correttamente contestualizzate geograficamente e temporalmente – tutto ciò che riguarda l’abbigliamento, contribuendo pertanto nella definizione culturale e cronologica. Questa, per esempio, è la collaborazione che svolgo sulle opere dell’Accademia Carrara di Bergamo. Quando si è più fortunati – ed io ho avuto questo privilegio – si lavora su abiti tridimensionali. Credo che il grande contributo che la mia disciplina può fornire è quello di “riportare in vita” il passato e, soprattutto, rendere comprensibili e umani il soggetto in un’opera.

Hai fatto studi filosofici, qual è la connessione tra Moda e Filosofia?

La Filosofia è importantissima perché, come diceva Giovanni Reale, si fonda su una domanda semplicissima quanto complessa che è “perché?”. L’approccio e la metodologia dell’indagine filosofica sono ad ampio spettro e necessita di continuo il coinvolgimento e la considerazione delle discipline più disparate. Attenzione, non
significa essere “tuttologi”. Essendo l’abito un prodotto dell’Uomo, la Filosofia, per rispondere alla domanda “chi è l’uomo”, deve dialogare e indagare tutto quanto permetta una reale comprensione. La Filosofia, da ultimo, “perizia” le parole e le menti. Non è un mero esercizio, bensì un’indagine complessa e profonda, lenta e
articolata, che non vuole dare una risposta a quel “perché” iniziale, bensì far scaturire ulteriori e continui quesiti. Ad esempio, perché Eschilo nell’Agamennone usa sia un
termine generico quale “estes” (abito), ad altri estremamente specifici quali “peplos” o “kiton”? In questo caso, la Filosofia aiuta la Storia del Costume entrando e stabilendo un dialogo con il Diritto, con l’Etica e con la Morale. Tutte tematiche che sono estremamente attuali e “di moda” dai quali, tuttavia, la Filosofia è purtroppo
estromessa. Insomma, la Filosofia aiuta nell’indagine sul costume e sulla moda perché è consapevole che non ci sarà mai l’ultima parola definitiva e immutabile su un argomento.

Potremmo quindi considerare l’abito come un atto politico?

Certamente. Questo vale per l’antichità, quanto per la contemporaneità. Basti ricordare che Virgilio, ne Ab Urbe Condita definisce i romani quali “gens togata”. È l’abito, la toga appunto, che conferisce lo status di romano. Trovo sempre molto interessante leggere ad esempio Cicerone: nei suoi scritti, i termini vestimentari vengono utilizzati con estrema cognizione di causa. L’abbigliamento è fortissimo strumento politico ed identitario. Pensiamo inoltre come, sin dall’epoca di Solone, la società occidentale è stata plasmata da numerose leggi suntuarie, ovvero da strumenti normativi finalizzati al controllo del lusso e dell’abbigliamento. Attenzione: non pensiamo che il controllo normativo sia un elemento legato solo all’antichità o al passato; nel 2019 in Pakistan e nel 2023 in Afganistan sono state emanate delle leggi che regolano l’abbigliamento e, conseguentemente, la società. Anche nell’Europa contemporanea persiste una valenza politica dell’abito determinata dalla funzione professionale. Pensiamo alla toga del giudice o dell’avvocato, la fascia tricolore del sindaco, o al completo/tailleur indossato da chi ricopre funzioni dirigenziali o, per un ambito più pop, pensiamo alle “regalie”, ovvero alla fascia, corona e scettro, che viene consegnata a Miss Italia. Si tratta di aspetti che non sono più normati per iscritto, ma che rispondono ad una consuetudine determinata dal sedimentarsi nel corso della Storia di prassi e norme secolari. Riprendendo ancora la Classicità, l’aspetto politico dell’abito rimane nelle scelte lessicali. Il termine “candidato” rimanda a colui che indossava la “toga candida”, ovvero una toga di colore naturale che, come ci ricorda Isidoro di Siviglia, era normata dallo Ius Quiritum.

Conoscere la Storia del Costume di ieri – in che modo può aiutarci a riflettere e conoscere meglio il mondo di oggi?

La Storia del Costume ci permette di comprendere come, in termini quasi nietzschiani, esista una sorta di eterno ritorno dove, ovviamente, gli elementi vengono sostanzialmente reinterpretati. Pensiamo alle scarpe con la suola rosso lacca di Louboutin, di per sé non rappresentano qualcosa di innovativo; sono un riferimento al Talon Rouge (il tacco rosso) utilizzato prima dalla famiglia reale di Luigi XIV di Francia e, successivamente, dalla nobiltà europea. Il significato è lo stesso: dichiarare il potere, prima definito dalla nobiltà di nascita o di sangue, oggi di matrice economica. Cosa è cambiato? Che in origine il “tacco rosso” era appannaggio esclusivo degli uomini, oggi è per le donne. O ancora, oggi noi ci scandalizziamo perché gli uomini si truccano. Bene: nell’Antichità sino alla fine dell’Ottocento il trucco era quasi esclusivamente una prerogativa maschile. Credo che molti rimarranno sconvolti nel pensare che i generali romani – nell’immaginario comune, sinonimo di virilità quasi tossica – in realtà si mettevano l’antenato dello smalto per laccare le unghie; o che gli uomini della seconda metà dell’Ottocento fino ai primi anni del XX sec. indossavano un busto steccato, simile in tutto e per tutto a quello femminile. Questo credo sia un interessante aspetto della Storia del Costume: capire che non tutto è immutabile, scritto sulla pietra come – ahimè – la società contemporanea crede. La Storia del Costume insegna che l’espressione “è sempre stato così” non esiste.

In che modo l’abito e la sua storia, si implementano alla cultura e all’arte?

La Storia del Costume nasce per gli artisti, prima che per gli studiosi. Quando, a partire dal 1590, da avvio alla pubblicazione de De gli habiti antichi, et moderni di diverse parti del mondo non pensa ai sarti, bensì agli artisti. Le sue incisioni, corredate da descrizioni di abiti da letteralmente tutto il mondo (comprese le Americhe) in tutte le epoche, dovevano servire agli artisti, alla stregua di modellari, per rappresentare correttamente la Storia nelle loro opere. Pensiamo anche allo Storicismo: facendo nostre le parole di Hegel, lo Spirito della Storia si concretizza solo se tutti gli elementi sono coerenti con il soggetto storico dell’opera. E l’abito non può essere esente da questo compito. Per contro, le evidenze iconografiche forniscono un importante riscontro di quanto è conservato in termini documentari e letterali.

L’abito ha connotato ogni epoca storica. C’è un periodo, in assoluto, in cui la moda ha veicolato fortemente gli usi e i costumi dell’essere umano?

A dire la verità, l’abito ha contribuito sempre, in tutte le epoche, a plasmare l’umanità. Prendiamo due esempi. Il primo, legato all’Antichità, è dato dall’Antico Egitto: le valenze simboliche legate alla nudità, alle cromie, ai gioielli è stata traslata nell’uso dei colori dell’anno liturgico cristiano. O ancora, i precetti contenuti nel Deuteronomio ci forniscono un’istantanea dell’abbigliamento ebraico che, altrimenti, a causa del divieto di rappresentare la figura umana, sarebbe totalmente ignoto. Bisanzio, tra V-XII secolo ha contribuito in maniera potente nella definizione visiva di concetti quali traslatio imperii e renovatio imperii. Poi, indubbiamente, l’immagine vestimentaria da Filippo II di Spagna a Filippo IV di Spagna, così come la moda a Versailles dal 1661, rappresenta un momento epocale. Pensiamo all’apporto dato dal fratello di Luigi XIV, Filippo duca d’Orléans, con l’invenzione dell’etichetta di corte e, soprattutto, l’azione comunicativa svolta attraverso le riviste di moda. Se oggi abbiamo Vogue, Marie Claire, etc. dobbiamo dire grazie alla sua opera di promozione della moda di corte tramite sarti, tessitori, incisioni e riviste.

In questi anni assistiamo, sempre più, ad un incremento di manifestazioni storiche dove l’abito assume un ruolo importante. In che modo queste realtà contribuiscono a mantenere vive le peculiarità legate al vestire?

Innanzitutto, si tratta di esperienze sociali e culturali importantissime, tant’è che anche il Ministero della Cultura si sta impegnando in una loro tutela e valorizzazione.
L’abito – che chiamiamo costume, in quanto rappresenta un travestimento che va al di là della quotidianità – è un elemento imprescindibile per portare in vita la Storia, che sia reale, immaginata o mitizzata. In particolar modo, grazie alle rievocazioni e manifestazioni storiche le comunità mantengono vive alcune tradizioni quali la sartoria, il ricamo, le lavorazioni a tombolo, etc. grazie ad una trasmissione di conoscenze dagli anziani ai giovani. Si tratta di un insegnamento “a bottega”, come si faceva nel passato. Chi è padrone di un’arte la trasmette, attraverso un insegnamento esperienziale, ai giovani. Questo permette anche una crescita di consapevolezza del valore artigianale del lavoro manuale o, come oggi piace dire ai più, del Made in Italy.

Alla fine l’evoluzione dell’abito, sebbene sia cambiato nel corso della storia, rimane integro nella sua funzionalità, è questo che vuoi dire?

La funzionalità dell’abito va intesa in due modi. Esiste una funzionalità “pratica”, che è quella del “coprire” per ragioni protettive determinata dagli agenti atmosferici.
Questo è l’abito dei primi uomini. Sin da subito, guardiamo ad esempio la mummia di Ötzi, si somma anche una seconda funzionalità, di natura sociologica. L’abito non
serve solo a coprirmi ma deve dichiarare all’altro, a chi mi guarda, chi sono e cosa faccio. Entrambe coesistono ancora oggi. Pensiamo alle divise indossate dal personale sanitario: la funzionalità pratica è espressa dalla scelta dei materiali e dal taglio sartoriale; quella simbolico-sociologica dalle cromie che indicano la professione e il ruolo ricoperto.

Nella sua storicità e nelle sue molteplici “forme” l’abito copre o svela l’identità dell’individuo?

Svelare o coprire l’identità sono un tutt’uno. È la società e il singolo che decidono cosa mostrare o occultare e viceversa. In questo senso, l’adagio popolare “l’abito non
fa il monaco” è quanto di più errato possa esistere. Nelle mie scelte vestimentarie – così come col trucco, i tatuaggi, i piercing, gli accessori, etc. – io “costruisco” la mia
identità; ogni elemento vuole parlare di me e, al contempo, vuole nascondere qualcosa che non accetto o che vorrei migliorare. Noto con grande interesse l’incremento dei Cosplay. Da un punto di vista sociologico e storico è la testimonianza di come si voglia fuggire dalla realtà del quotidiano, coprire la propria identità, a favore di un altro sé. D’altro canto, anche attraverso la ricerca spasmodica degli abiti firmati, dell’eccentricità di per sé, è come se volessimo costruirci – o meglio, cucirci – addosso un apparire che attragga l’attenzione. L’abito è uno strumento per sentirci al centro dell’attenzione, per attrarre gli altri ed essere accettati. Sostanzialmente dei moderni pavoni.

bestiari - il pavone - il costume
Vanitas - collage fotografico - 30x40 cm. 2023

Puoi spiegare cosa sono i Cosplay?

Come dicevo prima, si tratta di un fenomeno sociale e culturale estremamente interessante. Benché in Italia sia approdato solamente negli Anni Novanta, le sue origini risalgono alla fine degli Anni Trenta del Novecento in America. Sempre più giovani – e adulti! – attraverso la confezione in autonomia degli abiti vivono un’esperienza alternativa, trasportandoli in un mondo parallelo, creando un senso comunitario di appartenenza collettiva. È importante sottolineare quanto il cosplayer debba necessariamente costruirti l’abito da solo. Da hobby diventa un’attività professionale di travestimento. Ancora più interessante sono il Crossplay e il Genderbender: ovvero il vestirsi (il primo) e l’immedesimarsi (il secondo) con personaggi e con l’estetica del sesso opposto. Attenzione: non è da confondersi con il travestitismo o con il crossdressing, fenomeno sempre accettato dalla società come ben raccontato nelle Avventure di un Abate vestito da donna di François de Choisy (Sellerio, 1996), meglio noto come M.me de Lambert. Nel Crossplay il soggetto è sempre legato al mondo del manga o alla cultura pop.

Qual è quindi il rapporto tra abito e corpo?

Si tratta di un rapporto mutevole, determinato dalla società che l’ha prodotto e, spesse volte, contraddittorio. Nell’Antico Egitto, l’abito doveva valorizzare il corpo e la
nudità in una forma vestimentaria; nel Barocco, l’abito era occultato all’interno di complesse strutture – e sottostrutture – che “costruiscono” un corpo ideale. Lo stesso
vale ancora oggi. In questo senso credo sia più autorevole il parere di un sociologo. Ciò che forse indubbio è che l’abito è uno strumento per un’affermazione del sé, della
propria identità, e il corpo è lo strumento attraverso il quale l’autodeterminazione si concretizza.

Molte Accademie della Moda sono private. Studiare, conoscere, sviluppare delle abilità dovrebbero essere peculiarità formative accessibili anche a coloro i quali non hanno le possibilità economiche. Non pensi sia un deterrente o una discriminante?

Ahimè, sì. Poche Accademie o percorsi simili sono accessibili a tutti. La moda è di moda e, come tale, anche la formazione ne subisce gli effetti. I percorsi formativi italiani sono totalmente inadeguati. Già le scuole professionali soffrono di una cronica carenza di preparazione pratica in termini di ore Laboratoriali. In aggiunta, lo studio della Storia dell’Arte, del tessuto e della Storia del Costume e della Moda è pressoché relegato al secondo Ottocento – nei casi più fortunati – o interamente al Novecento, il che è una follia. Non si può creare nulla di nuovo se non si ha conoscenza di ciò che il passato ha prodotto. Lo stesso vale anche nella formazione universitaria. Tutto quanto è antecedente al 1850 è rarissimamente trattato. La maggior parte degli studenti hanno grandi lacune al termine dei percorsi formativi e, per rimediare, si trovano davanti alla faticosa decisione di trasferirsi all’estero per ottenere una formazione pratica e teorica adeguata, con un conseguente dispendio economico tutt’altro che irrisorio. È assolutamente possibile rimediare a questa situazione guardando a cosa avviene al di là delle Alpi. Ad esempio, i Lycée de la Mode in Francia propongono ottimi percorsi formativi dove gli studenti, al termine del percorso di cinque anni, sono in grado di poter lavorare con cognizione di causa. In ambito universitario, vale lo stesso discorso. Chi esce dalla St. Martin’s Academy di Londra ha un livello infinitamente superiore rispetto agli studenti italiani. Questo per gli italiani è un grande smacco nonché una vergogna se consideriamo che la più importante Scuola di Moda – detto in modo improprio – di inizio Novecento, voluta e fondata da Rosa Genoni alla Società Umanitaria di Milano, venne presa a modello in tutta Europa. In aggiunta, la politica non è d’aiuto. Malgrado da anni si parli di promozione e valorizzazione dell’alto artigianato o di Liceo del Made in Italy, oggi in Italia abbiamo solo due istituzioni che “insegnano” realmente l’arte della moda: la Fondazione Arte della Seta Lisio di Firenze e la Scuola dei Mestieri di Bruno Cuccinelli. Ciò che maggiormente mi disturba è la pubblicità menzognera che trova terreno fertile in un immaginario distorto da parte della nostra società, fondata sempre di più sul “pago quindi voglio”. Purtroppo, la qualità, se priva di consapevolezza, non si può pretendere.

Realizzare un abito, in tutte le sue fasi, presumo implichi preparazione e capacità che vanno oltre il talento, quali sono secondo te queste capacità?

Indubbiamente. Anche in questo caso, il passato insegna. Quando nel 1219 a Venezia si avviarono i primi “esami di stato” per la professione del sarto, si chiedeva ai candidati di dimostrare delle capacità che erano progettuali e pratiche, il che significa costruzione dei cartamodelli, capacità di calcolo geometrico-matematico, conoscenza
dei tessuti. Lo stesso vale ancora oggi. Il talento da solo non basta. Saper realizzare un bel figurino non è sufficiente perché, quando quel disegno verrà trasformato in un
prototipo, sarà necessario motivare scelte e giustificare azioni correttive. Pertanto, è assolutamente indispensabile avere “le mani in pasta”, essere curiosi e, ancora di più,
saper rubare i segreti del mestiere. La moda non è quello che vediamo in Sex and the City o Il diavolo veste Prada. La moda è sacrificio, dedizione, impegno e fortuna.
Soprattutto, la moda, esattamente come le altre discipline e mestieri, è consapevolezza dei propri limiti.

A questo proposito hai dei suggerimenti da dare a chi vuole intraprendere un lavoro correlato alla moda – nei suoi molteplici aspetti?

Come detto prima, il primo suggerimento è capire che, al pari di tutte le professioni, la moda è faticosa. Non basta aver studiato in una prestigiosa Accademia per diventare designer. Quello è l’inizio di un percorso lungo, anzi lunghissimo. Bisogna essere estremamente convinti del percorso che si vuole intraprendere. Davanti a sé vi sono anni di sacrifici, di studio teorico che deve camminare in parallelo con delle capacità pratico-manuali. Soprattutto, bisogna saper ragionare con la propria testa; essere critici, ovvero cercare di analizzare ciò che vedo cercando di capire i punti di originalità, le citazioni, le riproposizioni. La moda si fa con le proprie mani. Quindi, dal disegno è importante passare sempre alla realizzazione di un oggetto tridimensionale.

Quanto è importante la promozione e il mantenere vive le abilità artigianali del “fatto a mano”?

Si tratta di un aspetto fondamentale sia in termini culturali, sia artistici. L’abilità artigianale è quanto determina la qualità dell’oggetto finale; soprattutto, l’artigiano è
l’artefice dell’unicità del prodotto perché, attraverso la sua esperienza e le sue capacità, è in grado di convogliare secoli di conoscenze anche nel più semplice elemento. Il venir meno del “fatto a mano” è sinonimo della scomparsa della cultura e della memoria di generazioni.

Nel regno animale, sono molti gli animali che nei loro rituali di corteggiamento danno il meglio di sé esibendosi con colori accessi o con piumaggi sorprendenti, come dei veri e propri abiti. L’uomo ormai da millenni indossa pelli di animali e se contrario finisce per indossare tessuti sintetici, nocivi per l’ambiente. Quali sono, secondo te, le scelte etiche da tenere in considerazione quando acquistiamo il nostro abbigliamento?

Se ci pensiamo bene, noi non siamo così differenti dagli animali per quanto riguarda la voglia e la necessità di metterci in mostra. Certo, come diceva Aristotele, siamo
animali sociali e questo indubbiamente complica le cose. Prendiamo l’idea del corteggiamento, riguardo all’abbigliamento, noi non facciamo altro che mantenere alcuni punti di tangenza con il regno animale. Prima abbiamo citato il pavone. Bene: se il pavone fa bella mostra di sé con la sua coda piumata, noi quando usciamo per un primo appuntamento tendiamo a vestirci bene, a curare l’aspetto estetico, scegliamo un profumo particolare. Insomma, cerchiamo di sorprendere chi vorremmo come partner. Tuttavia, essendo animali sociali, le nostre scelte vestimentarie sono determinate dall’adesione – più o meno consapevole – a modelli di rappresentatività estetici, sociali e comportamentali che variano geograficamente e nel tempo. La scelta dei materiali oggi rientra in questo discorso. L’etica ambientale e la critica mossa al Fast Fashion, quindi sostanzialmente al consumismo sfrenato e ad un’attenzione verso i diritti dei lavoratori – oggi è particolarmente sentita. Se sia un interesse di facciata o indagare se la società creda veramente a queste tematiche non spetta a me a dirlo. Fatto sta che le recenti normative espresse nella Strategia EU verso le microplastiche tessili (i sintetici) o la predilezione verso la cosiddetta “seta non violenta” (un processo dove si garantisce il ciclo vitale alla larva di completare la metamorfosi e di trasformarsi farfalla) testimoniano non semplicemente il cambiamento del sistema moda; sono un importante segnale di come l’apparire non sia da intendersi come un aspetto esteriore, bensì contempli anche una consapevolezza delle scelte più intime.

Palmieri marinoni

Sono Alessio Francesco Palmieri Marinoni. Storico del Costume e della Moda, Storico del Costume Teatrale e delle Arti Sceniche. Tema portante della mia ricerca è l’indagine sulla relazione tra autenticità storica, storicismo e costume teatrale nel teatro musicale e nell’opera wagneriana. Sono Docente presso diversi atenei italiani e autore per Art E Dossier, Giunti, Silvana Editoriale, Carocci e Àncora.

* Giovanni Fornoni ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. All’attività di artista affianca quella di docente. Con i suoi Bestiari sovrappone o accosta la condizione umana a quella animale, indagando simbolicamente fatti di cronaca contemporanea, mettendo in rilievo verità ataviche, antropologiche, sociali e culturali.

Immagine dell’opera: Vanitas – collage fotografico – 30×40 cm. 2023
Freepik archive, image wirestock reworked by the Artist

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