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Cinema

La recensione

“Painkiller”: la serie sullo sviluppo e la pericolosa dipendenza da antidolorifici

Cause e conseguenze dell’epidemia degli oppioidi negli Stati Uniti, tra l’ascesa di Purdue Pharma e la lotta all’abuso del consumo di un farmaco legale che ha causato più di 300mila morti

Titolo: Painkiller

Titolo originale: Painkiller

Ideatori: Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster

Regia: Peter Berg

Paese di produzione/anno/durata: USA / 2023 / 41-59 minuti per 8 episodi

Interpreti: Uzo Aduba, Matthew Broderick, Taylor Kitsch, West Duchovny, Dina Shihabi, John Rothman, Tyler Ritter

Distribuzione: Netflix

“Fuggire dal dolore e correre verso il piacere”. Negli anni Novanta, la crisi degli oppioidi negli Stati Uniti ha fatto registrare un’epidemia di morti da overdose a causa dell’abuso e della dipendenza da oppioidi da prescrizione, legali e prescritti dai medici per alleviare il dolore. Tra questi viene spesso utilizzato l’OxyContin, nome commerciale di un farmaco a base di ossicodone a rilascio prolungato.

Lo sviluppo incontrollato del consumo di OxyContin e la parallela ascesa di Purdue Pharma che l’ha prodotto, sono protagonisti in “Painkiller”, miniserie creata da Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster (“Narcos”) e diretta da Peter Berg, dal 10 agosto su Netflix.

A tessere le fila della vicenda è Edie Flowers (interpretata da Uzo Aduba), investigatrice del procuratore distrettuale che indaga su Purdue Pharma e sulla commercializzazione del suo antidolorifico oppioide. Sotto la lente d’ingrandimento è la famiglia Sackler, proprietaria della casa farmaceutica, nella figura in particolare del carismatico e diabolico presidente Richard Sackler (Matthew Broderick). In parallelo, la serie mostra le vicende della giovane rappresentante Shannon Schaeffer (West Duchovny) e di Glen Kryger (Taylor Kitsch), meccanico, che entra in una spirale di dipendenza dopo aver assunto l’OxyContin per alleviare il dolore alla schiena causato da un incidente sul lavoro.

L’elevato livello di dipendenza (mai comunicato) prodotto dal farmaco è al centro di uno scandalo che ha provocato più di 300mila morti, raccontato in un articolo del New Yorker “The Family That Built an Empire of Pain” di Patrick Radden Keefe e nel libro “Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic” di Barry Meier, già trattato poi nella serie “Dopesick” (disponibile su Disney+) e che in “Painkiller” viene mostrato in diversi aspetti.

Primo fra tutti, quello riguardante le morti, ricordate all’inizio di ogni episodio, dove i veri genitori delle vittime narrano il disclaimer per cui i fatti rappresentanti sono in parte fittizi, mentre reale è la morte di persone innocenti che si fidavano del sistema sanitario. Un sistema sanitario americano che viene mostrato dalla serie come un importante apparato burocratico che si nasconde dietro parole e documenti per non voler prendere una posizione apertamente contraria alle grandi case farmaceutiche.

La morale e la salute delle persone vengono barattate con bieco cinismo per ricchezza ed interessi personali. La prescrizione dell’OxyContin è fin da subito molto remunerativa per i medici compiacenti, abbindolati da giovani donne avvenenti appositamente scelte e formate come rappresentanti per conto di Purdue Pharma. Britt Hufford (Dina Shihabi), rappresentante di vendita focalizzata sul lavoro e sui benefici connessi, ingaggia così Shannon Schaeffer, giovane studentessa continuamente combattuta tra la ricerca di ricchezza e benessere ed un senso di responsabilità che non le permette di rimanere indifferente di fronte al dramma che sta avvenendo sotto i propri occhi.

Mentre cresce il valore della Purdue, attraverso un ritmo incalzante e montaggi veloci che mostrano convention aziendali entusiaste, combattuti consigli di amministrazione e consumo di pasticche in dosi sempre più massicce, cresce anche il dramma di pazienti e famiglie intere distrutte dalla dipendenza.

La sceneggiatura rallenta nella vicenda drammatica di Glen Kryger, diventato dipendente da OxyContin dopo un infortunio alla schiena all’interno della propria officina. I colori, le paillettes e i peluche-mascotte (con uno stile che ricorda Adam McKay) lasciano spazio a colori freddi e bui che raccontano il dramma di Glen, dove il didascalismo lascia spazio al solo dolore e ad una situazione che sembra rimediabile, ma che nei fatti mostra altro.

Non ci sono remore invece all’interno della società, più preoccupata a mantenere un nome rispettabile, come ricorda il fantasma di Arthur Sackler (Clark Gregg), che non esita a prendere a cazzotti il nipote Richard per mantenere alto il prestigio e l’onore di una famiglia che, prima dello scandalo, veniva ricordata solo per il mecenatismo.

Le parti dedicate ai Sackler hanno nella serie un tono quasi macchiettistico, di imprenditori senza scrupoli che sembrano attraversare la storia, quasi incensurati e noncuranti delle vittime provocate. Vittime che rimangono centrali in Painkiller: un dolore che non viene eliminato, ma che rimane invece, indelebile come il ricordo di persone amate, morte a causa di un cinismo che guarda solo ad un meccanismo capitalista senza alcuno scrupolo.

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