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Padre conciliare

Morto Luigi Bettazzi, storico vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi

Monsignor Luigi Bettazzi, 99 anni, cento il 26 novembre prossimo, trentatré dei quali vescovo di Ivrea (1966-1999), uno degli ultimi padri conciliari viventi, è morto all'alba di oggi domenica 16 luglio

Era l’ultimo Padre conciliare italiano del Vaticano II ancora vivacemente impegnato a 99 anni nella diffusione del Vangelo. Luigi Bettazzi, storico vescovo di Ivrea, è morto stamattina. Infaticabile costruttore di Pace, fu a lungo presidente di Pax Christi: e qui vale la pena di ricordare che il 31 dicembre 1968 si tenne la prima Marcia di Capodanno proprio a Sotto il Monte-Bergamo dal titolo “La pace non è americana, come non è russa, romana o cinese; la pace vera è Cristo”, con la figura profetica di Padre Davide Turoldo), voluta per contestare il modo consumistico di iniziare l’anno e per appoggiare l’impegno per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. E proprio a Bergamo due anni dopo si tenne il primo congresso di Pax Christi con la prima bozza del nuovo statuto.
Vescovo per 32 anni di Ivrea, mons. Bettazzi comunicava la sua esperienza sforzandosi soprattutto di incoraggiare alla conoscenza e all’attuazione del Concilio e all’impegno per la pace. Ammoniva con coraggio: “C’è il rischio che più ci si allontana dal Concilio più questo evento sia visto come qualcosa del passato. Per la pace ci si rende conto che bisogna entrare molto nei meccanismi che provocano le guerre”. Pax Christi, partito come un movimento di spiritualità, ha via via denunciato il commercio delle armi, gli interessi economici, i diritti dei popoli, soprattutto i più oppressi, l’urgenza di una cultura di pace (il sogno di Isaia) e di solidarietà, con un momento altamente simbolico: il vescovo di Molfetta, Tonino Bello, successore di Bettazzi come presidente di Pax Christi, già gravemente malato, che si reca nella martoriata Sarajevo.

Un infaticabile costruttore
di nuove frontiere di pace

di GIUSEPPE ZOIS

Pace, comprensione, tolleranza, perdono. Tanti gli orizzonti aperti, pochi però insegnano ad essere in pace con sé stessi… Ah, la pace con sé stessi! Dobbiamo coltivare un ideale nella vita. Per chi ha fede è l’amore di Dio. Se uno cerca di adeguare la sua vita a questa prospettiva, sente – di fronte alle difficoltà – di essere nel giusto. Dall’infinito repertorio di pace di Luigi Bettazzi ecco i passi salienti di una lunga intervista che gli feci per il libro “Segni di terra” (Edizioni San Paolo), pubblicato collateralmente alle manifestazioni per il centenario dell’incoronazione della Madonna della Cornabusa, a Sant’Omobono Terme. L’incontro iniziò con una provocazione, come piaceva al vescovo Bettazzi.

La Chiesa non ha accreditato un po’ l’immagine di un Dio di guerra, di vendetta, il Dio degli eserciti…?
È vero che siamo stati tolleranti con le guerre sante e con le guerre giuste, ma gli eserciti di cui si parla e si canta sono quelli degli angeli: siamo davanti al Dio della grandezza, della sicurezza garantita dagli angeli. Non possiamo negare di aver avuto anche dei Papi guerrieri, come Giulio II. Oggi siamo nella luce accesa da Papa Wojtyla che ha convocato ad Assisi tutti i capi delle religioni. Se tutti ci riferiamo allo stesso Dio, non possiamo farci guerre in nome della religione.

E tuttavia stiamo assistendo al tentativo di arruolare Dio un po’ sotto tutte le bandiere…
Diciamo che è molto comodo e utile arruolare Dio perché dà un aspetto religioso anche ai propri piani, magari di potere umano. È un cammino difficile se noi pensiamo ai mussulmani che stanno ripetendo a secoli di distanza, quello che abbiamo fatto noi. Dato che noi abbiamo avuto la fortuna di superare – non completamente perché c’è ancora qualche focolaio acceso – quegli incendi, nostro compito è portare anche gli altri, presto se possiamo e in forma non violenta, su quel cammino che noi abbiamo fatto nel corso degli ultimi secoli.

“Vi scongiuro a essere indignati”, esortò Martin Luther King: ma l’indignazione non è confinante con la guerra? E un martire della pace può incitare in qualche modo alla ribellione e alla guerra?
Penso che Martin Luther King volesse scuotere la gente perché non si disinteressasse delle ingiustizie che ci sono e che urlano. L’indignazione è una forte presa di coscienza. Certamente la risposta deve essere non violenta, e King, arrivò a sfidare la morte proprio perché la situazione attorno a sé era insopportabile ed era imperativo reagire. Occorre spiegare che l’indignazione deve essere sviluppata in forma non violenta.

Si può essere, almeno in parte, un po’ indignati per come si sta vivendo, con forme di povertà e di ingiustizia che avanzano nell’indifferenza generale?
Si assiste a troppe sordità, calcoli, opportunismi, chiusure, mancanza di dialogo, di accoglienza reciproca. Prendiamo la politica: il quadro che è sotto gli occhi non è di sicuro edificante e ingenera nell’opinione pubblica il sospetto dell’interesse e del tornaconto. Tutti puntano a vincere, pochi pensano o si preoccupano di lavorare per far crescere la nazione.

Qual è lo spartiacque tra giustizia e vendetta?
È l’atteggiamento interiore. Quello dell’odio porta alla vendetta mentre l’amore del nemico – il considerare che in fondo è comunque un essere umano amato da Dio – accende la speranza di un riscatto. La vendetta è ricambiare con il male, commettendo altro male perché se lo fai con odio e con amarezza, allora tutto precipita nel male.

Gli insidiosi veleni
dei tentativi di dominio

Secondo la sua esperienza e la sua sensibilità, da dove viene la prima guerra nel cuore e nell’animo dell’uomo?
La prima guerra è contro coloro che ci impediscono o ostacolano la ricerca del nostro appagamento, del nostro benessere. Nasce lo spirito di reazione. Oppure, dentro la società, ci si trova davanti all’egoismo e alla prepotenza di chi si ritiene più forte e allora si innesca una reazione che troppo spesso ha delle forme di violenza esplicita o implicita; sono, in fondo, tentativi di dominio ai quali si risponde con la violenza. Forse certe forme di anarchia, anche violente, nascono come reazione alla consapevolezza o all’impressione di essere vittime della prepotenza dei più forti o dei più privilegiati.

Quando è opportuno cominciare l’educazione alla pace e come svolgerla?
Andrebbe iniziata dalla prima infanzia: se deve essere uno stile interiore, occorre partire dal bambino. Abituando il ragazzo alla competizione come priorità, sarà molto più difficile poi educarlo alla pace da giovane o da adulto. Dovremmo insistere fin dai primi tempi sull’educazione alla pace personale, nella famiglia, nella scuola, attorno a noi, per alzare quindi l’asticella alla pace sociale e mondiale.

Ma la pace non può
essere delegata al Cielo

Nelle preghiere si chiede spesso la pace come un dono, quasi che questo potesse piovere prodigiosamente dall’alto. Perché invece non insistere sulla pace come responsabilità individuale?
È importante sapere e rendersi conto che è un dono di Dio, perché se la pace fosse affidata o dipendesse soltanto dalle nostre capacità non andremmo molto lontano. Dobbiamo pensare che Gesù Cristo è sceso a portare la pace sulla terra, indicandoci la traiettoria di un cammino che si può e che si deve fare. La preghiera deve portarci ad un’accentuazione del nostro spazio di impegno personale, a non lasciare nulla di intentato per realizzare questo percorso, sul quale invochiamo il sostegno del Signore. È un cammino che va in controtendenza rispetto alla direzione dell’essere umano, su cui grava il peccato originale, che è un peccato di chiusura, di individualismo ed egoismo. Pregare è far sentire che siamo nel cammino tracciato da Dio e che Lui ce ne darà la grazia. Non può essere in ogni modo un delegare la pace al Cielo, con dispensa dal nostro sforzo personale.

L’ultima invocazione delle litanie è per la Madonna “Regina della Pace”: come la intende e la motiva un vescovo?
Mi piace considerare il cammino che ha fatto la Chiesa in questi ultimi tempi: da Papa Giovanni che ha parlato della pace, fondandola sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà a Paolo VI secondo cui “il nuovo nome della pace è lo sviluppo dei popoli” fino a Giovanni Paolo II che dopo oltre vent’anni ha dichiarato con coraggio che “il nuovo nome della pace è la solidarietà”. E’ bello pensare alla Madonna come “Regina della solidarietà”.

Chiesa comunità di pace
dove si fa accoglienza

Come prega per la pace un vescovo?
Che la grazia del Signore ci apra e ci illumini, a partire da chi ha forti responsabilità nella Chiesa. La preghiera costante, rinnovata deve essere innalzata perché possiamo vivere nella pace del cuore, nella pace della Chiesa. Non possiamo essere portatori di pace fuori di noi se non cominciamo a testimoniare la pace al di dentro. Quindi: convivialità delle differenze, come diceva Tonino Bello. Dobbiamo renderci conto che le differenze, le quali istintivamente ci portano al contrasto, devono diventare l’occasione della convivialità, per arricchirci delle differenze degli altri, per offrire agli altri le nostre differenze. Quando parlo e prego di pace comincio a chiedermi: e io, cosa faccio per realizzare pienamente la pace e per fare anche della mia Chiesa una comunità di pace, in cui ci si accolga anche se si è diversi, con sensibilità differenti. Soltanto in questa capacità di una Chiesa che costruisce la pace al di dentro, si può diventare persuasivi parlando di pace.

Qual è il peccato che la fa indignare di più come vescovo?
L’ipocrisia. L’atteggiamento di chi si presenta come un profeta del bene e in realtà lo fa per un suo calcolato interesse. Questo proprio non lo odio ma non lo tollero.

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