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L'udienza

Morta nel rogo in Psichiatria, i consulenti: “Lacune nella valutazione del rischio incendio dell’ospedale”

Il sistema antincendio era certificato ma nel reparto mancavano i dispositivi che spruzzano acqua dal soffitto perché pericolosi per i pazienti. Secondo gli esperti erano necessarie misure per compensare

Bergamo. L’ospedale Papa Giovanni aveva un piano antincendio certificato ma, secondo le considerazioni dei consulenti di accusa e difesa, “il rischio incendio non era stato ben valutato”. I due esperti hanno deposto nel corso del processo a carico di A.B., 32 anni di Lissone, ed E.G., 31enne di Paderno Dugnano, addetti della squadra antincendio all’epoca dipendenti della società che gestiva il servizio all’ospedale di Bergamo. Il processo mira a stabilire eventuali responsabilità nella morte di Elena Casetto, la 19enne deceduta in seguito ad un rogo da lei stessa appiccato all’interno della sua stanza nel reparto di Psichiatria, dove si trovava ricoverata nell’agosto 2019.

Paolo Panzeri è l’ingegnere nominato dalla Procura per ricostruire le cause e le modalità di sviluppo dell’incendio. Ha esaminato tutti i documenti relativi al sistema antincendio “ed ho eseguito accertamenti a più riprese per capire se quanto scritto fosse stato effettivamente messo in pratica”. Accertamenti che hanno dato esito positivo: “Il piano era ben concepito e ben organizzato, infatti l’incendio è rimasto circoscritto e non si è propagato”.

Secondo l’ingegnere però sono state violate alcune norme, in particolare l’articolo 28/81 sulla valutazione del rischio d’incendio da parte del datore di lavoro, quindi dell’ospedale, e l’articolo 33 dello stesso decreto legislativo sul servizio di prevenzione e protezione dai rischi.

“Qualcosa non ha funzionato: le telecamere di sorveglianza c’erano ed erano attive, ma in quel momento nessuno le stava guardando – dichiara Panzeri -. Il personale adeguatamente formato non era in servizio, la gestione della sicurezza antincendio è intervenuta in modo discontinuo e mancava un armadio con l’attrezzatura al piano”. L’importanza di questo ultimo aspetto emerge dalla ricostruzione dei tempi dell’incendio, ricostruiti anche grazie ad una simulazione: “Dall’innesco alla segnalazione sono passati circa 3 minuti e mezzo. Nove minuti dopo l’apertura della porta della stanza è arrivata la chiamata alla centrale operativa dei vigili del fuoco: erano le 10.12 e 32 secondi”.

Cos’è successo in questo lasso di tempo? Tra le 10.06 e le 10.12 i due operatori sono intervenuti ed hanno cercato di raggiungere la stanza con gli estintori in mano. La temperatura era però altissima, sono dovuti scappare. Uno di loro è sceso per andare a recuperare le tute e gli altri dispositivi di protezione, ma ormai era troppo tardi. “Lo scenario sarebbe stato gestibile anche dopo i 3 minuti e mezzo con il solo ausilio degli estintori utilizzati sull’innesco delle fiamme, ma chi li maneggiava avrebbe dovuto indossare le protezioni”. Che, data la mancanza dell’armadio al terzo piano della torre 7, si trovavano nel furgone al piano terra.

C’è poi un altro elemento che ha favorito il rapido propagarsi delle fiamme: il calore ha intaccato i tubi metallici per il passaggio dei gas medicali che si trovavano sopra al letto di Elena Casetto. L’ossigeno si è rapidamente diffuso rendendo tutto più infiammabile e questo spiega la violenza del rogo.

Nel reparto mancavano i cosiddetti sprinklers, i dispositivi che si attivano in caso d’incendio spruzzando acqua dal soffitto. Non per negligenza, ma perché potevano rappresentare un pericolo per la sicurezza dei pazienti psichiatrici. In seguito alla morte della 19enne una commissione interna, come ha testimoniato Tatiana Ferrari, Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione del Papa Giovanni, ha suggerito di apportare delle migliorie: “Abbiamo inserito degli sprinkle a scomparsa che impediscono la manomissione ed eventuali usi impropri da parte dei pazienti, abbiamo inserito gli accendini a muro senza fiamma, abbiamo potenziato la formazione antincendio per il personale. Non siamo riusciti ad aumentare gli addetti all’antincendio per mancanza di risorse economiche”.

Il consulente della difesa, l’ingegner Ciro Cannelonga, si è soffermato sui tre elementi necessari a innescare il rogo: “Serve una sorgente di innesco, in questo caso l’accendino che la vittima aveva con sé; un combustibile, ovvero le lenzuola, le federe e le traverse e un comburente, rappresentato dall’ossigeno che si è propagato nella stanza”. Secondo l’esperto l’intervento dei due imputati è stato corretto: “Hanno utilizzato gli estintori perché più idonei in caso di emergenza rispetto alla manichetta idraulica che si trovava all’esterno della camera. Sarebbero serviti almeno due minuti per azionarla. Inoltre secondo il piano di valutazione del rischio incendio l’intervento degli addetti deve avvenire entro 8 minuti dall’allarme ma senza la vestizione, solo per verificare lo stato dei luoghi”. L’esperto concorda con il collega Panzeri rispetto alle lacune della valutazione del rischio incendio: “Per sopperire alla mancanza degli sprinklers sarebbero state necessarie altre misure compensative, come la ventola di aspirazione dei fumi caldi, che non era presente, più formazione per il personale e telecamere che riprendevano i pazienti”.

Prossima udienza, con il probabile esame dei due imputati, il 14 settembre.

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