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L'analisi

Una Turchia divisa si affaccia al ballottaggio

Nella campagna elettorale e dai risultati delle urne sono emersi tre temi fondamentali

Il quadro delle elezioni presidenziali e parlamentari turche di domenica scorsa è ormai definitivo. Il presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan e il suo principale sfidante Kemal Kılıçdaroğlu si affronteranno nel ballottaggio previsto per domenica 28 maggio. I giochi sono invece conclusi nell’Assemblea nazionale, dove la “Alleanza del popolo”, composta dall’AK Parti di Erdoğan e altri partiti di destra, ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi.

I risultati delle votazioni confermano ciò che dicevano i sondaggi delle ultime quattro settimane, che avevano consistentemente rilevato la risalita dei consensi per il presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan e per l’AK Parti, che pure dovrebbe perdere una trentina di seggi sui seicento totali.

Nel complesso, la mappa politica della Turchia rimane sostanzialmente la stessa dal 2007 a oggi: una striscia rossa (il colore del partito repubblicano di Kılıçdaroğlu) nelle province occidentali lungo la costa del Mar Egeo, una distesa di arancione (il colore del partito di Erdoğan) nell’Anatolia e infine una macchia viola nelle province a maggioranza curda nel sudest del paese. A prima volta, parrebbe una tripartizione tra città, campagne conservatrici e minoranze etniche. In realtà non è esattamente così perché nella parte arancione ci sono anche grandi centri urbani ed economici come Bursa, Konya e Gaziantep: le cosiddette “tigri anatoliche” che hanno trainato l’economia turca negli ultimi quindici anni.

A cambiare colore è la città metropolitana di İstanbul, dove Kılıçdaroğlu ha di poco prevalso (48.55 contro 46.69) su Erdoğan. İstanbul è una metropoli enorme che contiene sia la città sia la campagna sia le minoranze etniche, e il voto nei diversi quartieri è stato prevedibilmente molto differenziato.

Kılıçdaroğlu deve ringraziare il voto strategico del movimento curdo e dei partiti di sinistra radicale, che hanno evitato di presentare candidature al primo turno per non frammentare l’opposizione. Nel suo primo video dopo la pubblicazione dei risultati, batte enfaticamente la mano sul tavolo e declama “Io sono qui”, rilanciando la sfida al presidente uscente.
La coalizione di cui era candidato, la “Alleanza della nazione” che raggruppa sei partiti di opposizione di diversa matrice politica, ha avuto tuttavia un risultato complessivamente modesto e al di sotto delle aspettative. Tenuta insieme più dalla comune avversione a Erdoğan che da un programma unitario, la coalizione si ferma a grande distanza dalla maggioranza presidenziale, con 213 seggi probabili contro 322.

Ottiene un risultato molto buono la “Alleanza lavoro e libertà”: il movimento curdo in queste elezioni ha fatto convogliare i propri voti sul Partito della sinistra verde (Yeşil Sol Parti) che, alleato con altre formazioni minori della sinistra radicale, dovrebbe ottenere 65 seggi e mantenere più o meno le stesse posizioni del partito filo-curdo HDP nelle precedenti votazioni. Tra i deputati eletti in parlamento per la sinistra radicale c’è anche l’avvocato comunista Şerafettin Can Atalay, che ha difeso gli attivisti del parco Gezi e i familiari delle vittime del disastro nella miniera di Soma, ed è stato condannato nel 2022 a diciotto anni di carcere per “attività sediziosa”.
La questione curda, comunque la si voglia chiamare per non urtare le sensibilità nazionaliste, rimane uno dei nodi centrali e irrisolti della politica turca. Nessun progetto di opposizione a Erdoğan può per il momento essere alternativo senza avviare un dialogo con il movimento curdo.

Nella campagna elettorale e dai risultati delle urne sono emersi tre temi fondamentali. Il primo riguarda la questione migratoria. Il voto di protesta al candidato di estrema destra Sinan Oğan (5.17%) mostra che il crescente fastidio per le persone migranti, rifugiate e richiedenti asilo è una vera e propria bomba a orologeria in un paese dove l’Unione Europea ha pensato bene di parcheggiare quattro milioni di persone non grate.

Il secondo tema è quello della sicurezza energetica. Con l’inaugurazione della centrale nucleare di Akkuyu (27 aprile) e l’avvio delle operazioni di estrazione dal giacimento di gas naturale Sakarya, nelle acque del Mar Nero di fronte alla provincia di Zonguldak (20 aprile), l’amministrazione uscente ha segnato due colpi assai importanti a suo favore.

Il terzo tema è quello della ricostruzione dopo il devastante terremoto del 6 febbraio scorso. Benché vi siano ancora moltissimi interrogativi sulle speculazioni edilizie e sulle carenze colpose di controlli che avrebbero amplificato gli effetti del sisma, a dominare il dibattito e la narrazione è stato il tema della stabilità politica necessaria per rimettere in piedi le aree disastrate, a tutto vantaggio del partito di governo.

Su tutti questi temi di politica interna aleggiano naturalmente anche le considerazioni di politica estera e il futuro delle relazioni internazionali della Turchia. Se Kılıçdaroğlu ha dato l’impressione di voler rendere più stabili le relazioni con il blocco atlantico, Erdoğan ha rivendicato la sua linea politica “a tutto campo”, facendo leva sulla capacità di destreggiarsi nel conflitto in Ucraina e sulla rinnovata presenza turca in un Medio Oriente dove le alleanze si stanno riconfigurando rapidamente. Erdoğan gioca a suo vantaggio l’enorme successo e l’entusiasta popolarità di cui gode al di fuori dei confini turchi, tra milioni di musulmani in Africa, Pakistan, India, Bangladesh, Malesia e Indonesia che lo vedono come il più autorevole capo di stato musulmano e l’unico in grado di fronteggiare quella che viene percepita come l’arroganza dell’Occidente. Non occorre d’altronde andare fino in Turchia per notare come i conflitti culturali (veri o presunti) e l’enfasi sul prestigio nazionale siano elettoralmente vincenti in questo periodo storico.

La competizione elettorale per il ballottaggio si preannuncia particolarmente accesa, in un paese che non ha mai sperimentato il secondo turno delle elezioni presidenziali (e nemmeno alle comunali). La forte polarizzazione del voto non potrà che aumentare in un paese dove, nonostante tutte le difficoltà e la crescente morsa sugli elementi più critici della società, le elezioni sono considerate una questione assai seria: l’affluenza alle urne è stata dell’86.87%.

Francesco Mazzucotelli
*Docente al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Pavia

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