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In tribunale

Morta nel rogo in psichiatria, infermiera in lacrime ricorda Elena: “Urlava e chiedeva aiuto”

Nuova udienza del processo che vede imputati per omicidio colposo due addetti della squadra antincendio. A parlare è il personale dell'ospedale Papa Giovanni

Bergamo. Parlare di quel giorno non è semplice: anche se sono passati quattro anni, anche se si lavora in un reparto delicato come quello di psichiatria. “Il lenzuolo era stretto al collo, voleva farsi del male”. Stando alle testimonianze del personale sanitario del Papa Giovanni, quel 13 agosto 2019 Elena Casetto cercò di farla finita poco prima di dare fuoco alla stanza in cui era ricoverata. “Io e altri due colleghi siamo corsi a darle una mano, era molto agitata. Abbiamo provato a calmarla, ma non c’è stato nulla da fare. Per questo le abbiamo messo le contenzioni”.

A parlare per prima giovedì mattina (6 aprile) in tribunale a Bergamo è V.R., operatrice socio-sanitaria chiamata a testimoniare nel processo a carico dei due addetti della squadra antincendio, all’epoca dipendenti della società che gestiva il servizio all’ospedale di Bergamo. Secondo il pm Letizia Ruggeri il loro intervento fu tutt’altro che da manuale: né scrupoloso, né tempestivo. L’accusa è omicidio colposo.

“Prima di passare alla contenzione – chiarisce V.R. – si cerca di calmare la persona per rassicurarla, ma non è stato possibile. La paziente era ingestibile”. Lei e i colleghi avrebbero chiamato il medico di guardia e deciso di passare alla contenzione, somministrando alla 19enne un sedativo. “Dovevamo tenerla in 7-8 persone”, riferisce la testimone. In casi come questo, il protocollo impone di chiudere a chiave la stanza della paziente per non farne entrare altri. E di effettuare un controllo ogni 15 minuti. “Non abbiamo potuto farlo, perché due minuti dopo avere chiuso la porta a chiave è scattato l’antincendio. Ho visto il fumo uscire dalla stanza di Elena e chiamato aiuto”. A quel punto, la testimone accusa un momento di debolezza. Nel ricordare quei momenti, si abbandona al pianto. “Ho riaperto la porta e mi è subito piombato il fumo addosso. Ho visto arrivare gli addetti antincendio, ma erano in maglietta e senza alcuna protezione. Speravo riuscissero a fare qualcosa di più, così mi sono concentrata sui pazienti. Andavano al più presto evacuati”.

Ancor prima sarebbero state effettuate le perquisizioni per assicurarsi che la paziente non nascondesse oggetti pericolosi. “Abbiamo trovato un cellulare nella tasca dei pantaloncini di jeans”, aggiunge. Ma dell’accendino che avrebbe usato per appiccare il fuoco, nessuna traccia. “Ce n’era uno appoggiato su un comodino – ricorda -. L’ho portato in sala infermieri, dove c’è l’armadietto che contiene gli effetti personali di chi è ricoverato”. Elena Casetto era una fumatrice. “Ma c’è una sala fumatori apposita, con il personale presente. Accendini e sigarette vengono poi chiusi a chiave negli armadietti, perché i pazienti non possono tenerli”. Un altro accendino – o meglio, di parti combuste riconducibili a un accendino – erano state repertate durante i sopralluoghi della scientifica dentro la stanza. Mentre i resti dell’accendino che la giovane avrebbe usato per dare fuoco (“voleva solo liberarsi dalle cinghie di contenzione”, è l’ipotesi dei vigili del fuoco) sono stati rinvenuti durante l’autopsia.

Mezz’ora dopo, in aula, è la volta di M.N., infermiera. Anche lei trattiene a stento la commozione, e il giudice Laura Garufi propone di interrompere l’udienza per qualche minuto. Solo a quel punto inizia a parlare. “Ero stata attratta dalle urla – dice -. Quando sono arrivata nella stanza di Elena c’erano già altri colleghi. Era molto agitata, aggressiva”. Prima avrebbero cercato di calmarla, poi chiamato il medico di guardia per la contenzione fisica, come raccontato dalla teste precedente. “L’abbiamo sedata, eravamo in sei o più persone”. Sarebbero rimaste con lei per un po’. “Ho dato a Elena una carezza e le ho detto di stare tranquilla. Poi ho chiuso la porta della stanza a chiave, ma lei continuava a urlare”. La dipendente dell’ospedale racconta di aver fatto giusto in tempo a raggiungere l’infermeria e di avere tolto i guanti, quando è scattato l’allarme antincendio. “Saranno passati sì e no due minuti. Siamo accorsi fuori dalla stanza e c’era l’inferno”. Una collega avrebbe preso un estintore, ma non sarebbe riuscita ad utilizzarlo. “Nel mentre sono arrivati i due addetti antincendio, non indossavano le protezioni. ‘Portate gli estintori e aprite le finestre’, dicevano” (finestre che erano bloccate per evitare defenestrazioni nei pazienti psichiatrici, ndr). “Elena chiedeva aiuto – prosegue -. L’aria era irrespirabile e il fumo ha invaso i corridoi in pochissimo tempo”.

Anche M.A., un’altra infermiera, definisce la vittima “molto agitata”. E “arrabbiata, perché non le avevano permesso di fare ciò che voleva fare (stringendosi il lenzuolo attorno al collo, ndr)”. Era metà agosto. “Faceva caldo, Elena era sudata e le abbiamo tolto la felpa”, prima di controllare cosa avesse nelle tasche dei pantaloncini e sotto la maglietta. “Aveva solo il telefonino, che è stato portato nell’armadietto. Un accendino – aggiunge – era stato ritirato, ma durante i controlli del mattino”. Segno, insomma, che tra i pazienti ne giravano diversi.

Nel corso della lunga udienza sono stati sentiti una quindicina di testimoni. Tutti dipendenti o ex dipendenti dell’ospedale Papa Giovanni. Tra loro, anche i manutentori che portarono a mano quattro estintori agli addetti dell’antincendio. Uno di loro, usò personalmente l’estintore. E sulla soglia della porta vide le gambe della vittima che si agitavano disperatamente nel letto.

Anche Alves Souza Aldair, madre della giovane, è stata ascoltata dal giudice. Una deposizione breve. “Elena non voleva morire”, ripete in aula. A suo dire, i tentativi di suicidio erano una sorta di “ricatto” per ottenere ciò che desiderava. Come il gattino al quale si era affezionata e che voleva portare a casa a Osio Sotto. “Quando eravamo in Brasile portava a casa tutti i gatti che trovava per strada. Stavolta le ho detto di ‘no’, perché ad agosto avevamo in programma un viaggio in Olanda. Non programmi un viaggio se pensi che tua figlia vuole togliersi la vita. Elena voleva andare ai concerti, iscriversi a filosofia o veterinaria. Non voleva morire”.

Una risposta potevano darla le telecamere presenti nella stanza, che però erano di tipo sanitario. In pratica, è stato spiegato in aula, riprendevano ciò che stava succedendo senza registrare e archiviare le immagini. Quando sono divampate le fiamme, ai monitor non c’era nessuno ad osservare quegli istanti. Così, almeno, hanno riferito i testimoni in tribunale.

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