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Musica

Ballando di architettura (una guida all'ascolto)

Cosa ci faccio qui?

Svelato il ruolo dei critici, perlomeno dei critici che piacciono a me, ed ecco spiegato il discorso che cercherò di sviluppare in questo spazio: una guida all’ascolto, niente di più o di meno

Dunque, anzitutto, una precisazione.

Non furono né Frank ZappaElvis Costello a coniare il detto “scrivere di musica è come ballare di architettura”, ma fu Martin Mull, comico dell’epoca il quale a sua volta ricavò la massima, riadattandola, da un testo del 1918 che recitava “scrivere di musica è tanto illogico quanto cantare di economia”.
Ora, a prescindere dalla paternità della frase, il messaggio mi pare abbastanza chiaro: cercare di tradurre in parole le sensazioni e gli stati d’animo che si sprigionano attraverso la musica, non è solo impresa ardua, ma addirittura priva di senso.

Come a dire che quello del critico musicale è un lavoro inutile.
Inutile un corno.

Se nessuno prima – e meglio – del sottoscritto avesse scritto di musica, oggi, a quasi trent’anni dalla sua morte, Zappa (tanto per stare in tema) lo conoscerebbero giusto i fedelissimi della prima ora e i quattro figli Moon, Dweezil, Ahmet e Diva, ai quali, peraltro, lo stesso Frank, sul letto di morte, lasciò quest’unico monito: – Suonate la mia musica e basta.

Invece, grazie alle penne di giornalisti capaci e coinvolgenti quali Riccardo Bertoncelli, Grail Marcus e Lester Bangs, gli affamati di musica – come il sottoscritto – si sono potuti costruire una propria cultura, anche partendo da zero (o quasi, dai, a tredici anni avevo completato la discografia dei Queen, ma non sapevo ancora distinguere il suono del basso da quello della chitarra).
Non dimentichiamoci poi che il giornalismo musicale è un perfetto trampolino di lancio.
Pensate a Carlo Massarini, Nick Hornby e Cameron Crowe, gente che ha saputo coniugare le proprie passioni per la musica e lo storytelling, traducendole in altre – ben più popolari – forme d’espressione: la televisione, la narrativa, il cinema.

Cultura vera, signori, mica intrattenimento.

Insomma, senza la critica di settore, il gusto personale resta l’unico metro di giudizio, il che non sarebbe nemmeno un problema, se si rinunciasse del tutto all’arricchimento e alla crescita individuale.
“Il jazz non è morto, ha solo uno strano odore”, diceva Zappa – sempre lui – dal palco del Roxy, prendendosela con gli scribacchini infeltriti e i vecchi tromboni dell’accademia, quei po-jama people (così li chiamava) che alla vita on the road preferivano la comodità delle quattro mura domestiche.
Eppure è anche attraverso le recensioni, gli articoli e i live report di questi nerd se la musica proveniente da ogni e più sperduto angolo del pianeta rimbalza da un orecchio all’altro, per giungere a ritagliarsi una propria – grande o piccola – fetta di pubblico, una sua dignità artistica.

Sì vabbè, tanto oggi c’è lo streaming.

Eh no, quello è un strumento di diffusione, non di divulgazione (a parte qualche podcast). Ma ditemi voi come si fa a skippare da una suite a una ballad, da un blues a un drone, semplicemente seguendo i suggerimenti di un algoritmo, senza mai fermarsi, riflettere, indagare o approfondire, senza chiedersi perché quella canzone ci piace e quell’altra no.
Ecco svelato il ruolo dei critici, perlomeno dei critici che piacciono a me, ed ecco spiegato il discorso che cercherò di sviluppare in questo spazio: una guida all’ascolto, niente di più o di meno.

Ben inteso che se qualche lettore vorrà farsi prendere per mano, sarò lieto di porgergli la mia, e se altri vorranno interagire, dire la loro, magari per bacchettarmi o farmi ricredere sui Maneskin, sarà ancor più stimolante.
Perché per ballare di architettura bisogna essere almeno in due.
O almeno credo.

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