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Il commento

Da Elly Schlein a Giorgia Meloni, quando le donne prendono il potere

Dopo la scelta di Elly Schlein a guidare il Partito Democratico, roccaforte tramandata di maschio in maschio, forse anche nel nostro Paese si intravvedono le potenzialità del mondo femminile, in questo caso anche femminista, portatore di idee, visioni e impegno tenace, passione vera per la polis intesa come vicinanza al popolo. Che sia giunto il momento di occupare il posto che ci spetta nelle istituzioni?

Mentre i quotidiani di ogni schieramento politico, fino al giorno prima sottolineavano con ardore maschilista i dieci punti percentuali a vantaggio del Presidente della regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, rispetto alla candidata Elly Schlein, domenica 26 febbraio, giorno delle primarie convocate dal PD, il popolo di sinistra si è riversato nei gazebi e nelle sedi deputate e ha dato il 53% delle preferenze a una giovane, voce spesso dissonante nel partito, che ha un curriculum ricco di esperienze anche internazionali.

Le donne sono state determinanti in questa votazione. Siamo andate convinte a infilare il foglietto con il suo nome perché vediamo in lei la compagna delle nostre battaglie per la parità di genere e diritti; perché abbiamo letto e condiviso ogni pagina del suo libro- programma “La nostra parte-Per la giustizia sociale e ambientale, insieme (Mondadori Ed.); perché, abbiamo pensato: “se c’è qualcuno in grado di riportare i giovani alla politica, quella è Elly”: per l’entusiasmo suscitato nelle piazze italiane, nelle grandi manifestazioni spontanee come negli eventi dell’Europa e del mondo. E, ancor più, ne abbiamo ammirato il coraggio: assumere la responsabilità di “rianimare” un partito pieno di spifferi e correnti, che ha perso negli anni la direzione e quindi il suo elettorato, richiede generosità e sprezzo del pericolo: di questo ha bisogno la politica. E, com’era da aspettarsi, il giorno successivo, i giornali hanno cominciato i confronti fastidiosi e impossibili tra la nuova Segretaria del PD e la recente Presidente del Consiglio, accomunate dal genere, ma distanti secoli per formazione politica e storia personale.

Il 25 settembre 2022 Giorgia Meloni è stata eletta da una coalizione di destra- Lega, Forza Italia e soprattutto Fratelli d’Italia, partito da lei fondato sulle ceneri del MSI fascista di Giorgio Almirante. Ceneri che la pugnace Giorgia ha saputo tenere accese per i nostalgici di un tempo perduto, benché mai finito: Giorgio Bocca, giornalista fra i più grandi e partigiano, sosteneva che la metà del nostro Paese era rimasto fascista. E la ragazza iscritta giovanissima all’MSI non ha mai tradito l’affiliazione, anche quando Gianfranco Fini tramutò il nome in Alleanza Nazionale e ne ammorbidì la linea. Quando la stella del riformatore si offuscò, lei prese fra le mani quel che restava della destra intransigente e fondò Fratelli d’Italia con i fedelissimi, maschi duri e rissosi, che l’hanno apprezzata e sostenuta fino alla vittoria delle legislative.

Il 26 febbraio la ribalta è toccata a Elly Schlein, e questo risultato è opera delle donne, stanche di non essere abbastanza considerate dall’agenda dei partiti, nemmeno quelli di sinistra: così abbiamo scelto una di noi, la prima alla guida del PD.

Intelligente, preparata politicamente fin da ragazza, conoscitrice dei governi mondiali per avere maturato esperienze all’estero, cresciuta in un ambiente culturale aperto alle idee future, impegnata nei movimenti ecologisti in Europa e America, chiara negli intenti come nelle parole, Elly ha dichiarato di avere “una compagna”, così che nessuno possa cercare gli scheletri nel suo armadio.

In netto contrasto con Meloni, che viene dal passato e ambisce al potere con modalità maschili, la nuova Segretaria del Partito Democratico è l’epitome perfetta del presente e del futuro, perfettamente a suo agio nel qui e ora eppure lanciata verso orizzonti ancora da esplorare, “figlia della sete che la vita ha di se stessa, come una freccia viva è scoccata in avanti”, come scriveva il poeta e filosofo Khalil Gibràn.

C’è da credere, dunque, che le donne abbiano accesso al potere anche nelle istituzioni italiane? Ci fa ben sperare la nomina di Margerita Cassano alla presidenza della Corte di Cassazione, anche lei “prima donna” a ricoprire questo ruolo e forse a imprimere una svolta verso la parità di genere. Certo la scelta riguarda competenze altissime maturate in anni di Magistratura, ma la differenza “di genere” risiede nelle parole con le quali ha accolto la sua elezione: “Il ruolo del magistrato non è solo fatto di abilità tecnica ma di umanità, capacità di ascolto, di rispetto profondo degli altri e di comprensione delle tragedie umane che si nascondono dietro i singoli casi portati alla nostra attenzione.” Se questa non è sensibilità femminile, cura dell’umano, disponibilità a comprendere anche, e soprattutto, un mondo che ci è estraneo, ma mai straniero…

Le donne, quando assumono una responsabilità, sono vestali di templi nei quali arde un fuoco che difenderanno con tutte se stesse, a suon di bravura e dedizione. Parliamo soprattutto di quelle che non occupano “manu militari” posizioni comode per le carriere, ma delle altre, che sanno anche lasciarli.

Come ha fatto Jacinda Ardern, dal 2017 Prima Ministra della Nuova Zelanda- primo Paese al mondo a concedere il voto alle donne il 19 settembre 1893- che ha avuto il coraggio di rinunciare all’incarico: “Non ho più energia per guidare il Paese nel modo giusto” ha annunciato a gennaio; un messaggio di onestà e trasparenza che conferma la leadership della premier appena quarantenne che ha affrontato l’emergenza Covid-19 e i tragici attentati nelle due moschee di Christchurch durante la preghiera del venerdì.

Le stesse dimissioni che la Prima Ministra scozzese Nicola Sturgeon, prima anche a ricoprire l’incarico dal 2014, ha rassegnato il mese di febbraio, con questa dichiarazione: “Il tempo di lasciare è ora”, ma con il senso delle istituzioni, che ha onorato benché contraria alla Brexit, ha accettato di restare fino alla nomina del successore.

Governanti europee e d’oltreoceano

Sono ormai numerose, ma non sufficienti, le presenze femminili nelle istituzioni d’Europa: Ursula von der Leyen è presidente della Commissione europea dal 2019, Roberta Metsola del Parlamento europeo da gennaio 2022, Christine Lagarde della Banca Centrale Europea (BCE) da novembre 2019. E per restare nel nostro continente: Magdalena Andersson è Premier in Svezia da novembre 2021; in Estonia l’europeista quarantenne Kaja Kallas è diventata Prima Ministra a gennaio 2021 affiancando la Presidente della Repubblica Kersti Kaljulaid. La Lituania ha Ingrida Simonyté presidente del Consiglio da dicembre 2020; dal 2017 l’Islanda ha scelto la Premier Katrin Jacobsdòttir, leader dei Verdi, è impegnata a mantenere il suo Paese orgogliosamente ecologista. Poi c’è Sanna Marin, trentasei anni, socialdemocratica e Prima Ministra della Finlandia dal 2019. La Norvegia ha avuto Erna Solberg prima Presidente del Consiglio dal 2013 al 2021; Mette Frederiksen è Ministra di Stato della Danimarca dal 2019. E in questa nutrita rassegna di donne al potere, tutte rappresentanti delle democrazie avanzate, non possiamo dimenticare Angela Merkel, Cancelliera della Germania che ha retto lo scettro del potere da novembre 2005 a dicembre 2021: forse pochi la rimpiangeranno, ma le va riconosciuta la straordinaria capacità di trattare con i governi di tutto il mondo sentendosi sempre all’altezza della sua missione. Lei che viveva con il marito in un modesto appartamento borghese ha gestito il potere senza innamorarsene, rivestendo il ruolo con dedizione al popolo e al Paese.

Se rivolgiamo lo sguardo oltreoceano, brilla per competenze e lunga presenza l’economista democratica Janet Yellen, presidente della Federal Reserve dal 2014 al 2018 e Segretaria del Tesoro da gennaio 2021. E Kristalina Georgieva, economista bulgara che da ottobre 2019 dirige il Fondo Monetario Internazionale a Washington. E ancora Kamala Harris, prima donna vicepresidente degli Stati Uniti, che pare offuscata- se non esclusa- dalle decisioni di Joe Biden: per ora. Queste le donne più famose della politica e del potere mondiale, non a caso tutte rappresentanti di democrazie consolidate.

Donne d’oriente sempre in marcia

Ma chi ha la memoria storica ricorderà che anche i Paesi che un tempo chiamavamo terzo mondo hanno avuto, prima dell’Occidente, donne speciali- nel bene e male- al comando. La prima Premier al mondo fu Sirimavo Bandaranaike, scelta dal popolo dello Sri Lanka ben tre volte: 1960-65, 1970-77 e 1994-2000. La signora dei record, leader del Partito della Libertà, dopo l’assassinio del marito accettò di continuare le riforme intraprese, cercò di spegnere la guerriglia Tamil e morì nel 2000, il giorno delle lezioni nazionali, dopo aver votato.

Indira Gandhi, figlia di Jawaharlal Nehru, primo presidente dell’India indipendente, è stata la prima e unica, a ricoprire l’incarico di Premier dal 1967 fino a metà degli anni ’70 quando fu interdetta dai pubblici uffici per brogli elettorali. Si ripresentò alle elezioni nel 1980 con un suo partito e con una politica autoritaria che non piacque a gran parte degli indiani: il 31 ottobre 1984 fu assassinata da due guardie del corpo. La stessa tragica sorte è toccata alla Premier pakistana Benazir Buttho, figlia di Zulfiqar, impiccato perché ritenuto colpevole della scissione del Bangladesh. Ha ricoperto la carica due volte, nel 1988-90 e dal 1993 al 96, con la contrarietà del clero radicale.

Dal 2018 anche il Vietnam ha una Presidente dal difficile nome Dang Thi Ngoc Thin, ma dalle idee chiare, che ha impostato una politica a favore delle donne.

L’ascesa delle donne al potere non è mai serena. Per difendere i principi fondamentali negati dalle dittature Aung San Suu Kyi, la resistente birmana, premio Nobel per la Pace nel 1991, figlia di un politico assassinato, amatissima dal popolo e detestata dalla giunta militare, dopo vent’anni agli arresti domiciliari, lo scorso dicembre è stata condannata a ulteriori sette anni di carcere.

Quando il potere diventa pericoloso

La storia recente non è priva di esempi pessimi di donne al potere. Jiang Qing, nel 1976 fresca vedova del presidente cinese Mao Tse-tung, ispirò la “rivoluzione culturale della banda dei quattro” cominciata e finita in bagni di sangue. Anche l’Ucraina ha avuto la prima Premier, Julija Timoschenko dal 2007 al 2010: imprenditrice di successo nel settore energetico, la “principessa del gas”, posseduta da quella che i greci chiamavano hubris, arroganza, tracotanza del potere, finì in carcere per scandali finanziari.

Dopo le dittature, le “presidentas” dell’America Latina

Ma gli esempi virtuosi si estendono al cono sud del mondo, quell’America Latina che lo scrittore Pablo Ignacio Taibo Secundo ha definito “inexistente, pero es una idea tan carinosa”. Michelle Bachelet, figlia di Albert, morto di tortura sotto la dittatura di Pinochet e minacciata di morte a sua volta, dal marzo 2006 al 2010 è diventata la prima Presidente del Cile, carica rinnovata nel 2014. Con impegno femminista ha garantito alle donne il diritto all’aborto in caso di gravidanza a rischio e in seguito a stupro e ha favorito l’ecologica contro progetti economici devastanti. Terminato il secondo mandato presidenziale, è stata eletta Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, posto che ha onorato da settembre 2018 ad agosto 2021. Dagli anni Novanta del ‘900 molte sono state le candidate al potere in America Centrale e Latina, spesso osteggiate e rimosse da una concorrenza maschile violenta: Dilma Rousseff, Presidente del Brasile dal 2011 al 2016 è stata vittima di un impeachment orchestrato dalle destre armate.

Visionarie alla conquista dei diritti per le donne

E come dimenticare che nel 2005 la madre Africa ha accolto con entusiasmo la prima Presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf, che ha trasmesso alle donne del grande continente il coraggio di entrare in politica: in Ruanda la maggioranza del parlamento è femminile; l’Etiopia dal 2018 ha Sahle-Work Zewde come prima Presidente; nel 2021 in Tanzania è stata eletta Presidente, Samia Suluhu Hassan, la prima.

Insomma, nei cinque continenti il cammino delle donne è inarrestabile e costituisce un patrimonio non più contestabile, una storia seminata di ingiustizie, diseguaglianze, violenze che ci hanno rese resistenti, competenti, bravissime in tutte le professioni. Con queste premesse siamo pronte a gestire la politica, sempre più convinte che il potere come noi lo intendiamo, cioè per il bene comune, è affare che ci riguarda. E dopo questo lungo exscursus, che sicuramente ha dimenticato donne degnissime in altri luoghi del mondo, faccio mia la frase del grande fotografo ungherese Robert Capa, dilaniato da una mina in Indocina nel 1954: “Vorrei essere un fotografo di guerra perennemente disoccupato.” Ecco, senza saltare su una mina, il mio desiderio di femminista, di giornalista turbata da troppa memoria ma sostenuta ancora da mille speranze è quello di non trovarmi più ad analizzare l’ascesa delle donne al potere: perché non farà più notizia, nemmeno nel Paese che abito.

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