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La recensione

Copenhagen Cowboy, predominio dell’immagine nell’estetica al neon di Refn

La nuova serie del regista danese, sviluppata per Netflix, vede protagonista Miu, ragazza portafortuna che deve destreggiarsi tra la criminalità di una cupa capitale

Titolo: Copenhagen Cowboy

Ideatori: Nicolas Winding Refn, Sara Isabella Jønsson Vedde

Regia: Nicolas Winding Refn

Paese di produzione / anno / durata: Danimarca / 2022 / 46-56 minuti per episodio

Interpreti: Angela Bundalovic, Li Ii Zhang, Andreas Lykke Jørgensen, Jason Hendil-Forssell, Zlatko Burić, Emilie Xin Tong Han, Hok Kit Cheng, Valentina Dejanovic, Ramadan Huseini, Dragana Milutinović, Lola Corfixen, Slavko Labovic, Fleur Frilund, Per Thiim Thim

Programmazione: Netflix

Un’esperienza visiva, di rosso e blu vestita. Sono i 312 minuti di Copenhagen Cowboy, l’ultima opera seriale di Nicolas Winding Refn, disponibile su Netflix dal 5 gennaio. Il regista danese torna a cimentarsi con la serialità, dopo la criminalità bruta di Los Angeles mostrata in Too Old to Die Young (2019), attraverso la figura minuta e imperturbabile di Miu, “ragazza portafortuna” che, proprio a causa della sua particolare condizione, si troverà a districarsi in una Copenhagen criminale, cupa e senza scrupoli.

Interpretata da un’ottima Angela Bundalovic, Miu (copyright Prada), venduta dalla madre quand’era piccola, viene accolta in una villa della capitale danese da un’anziana donna dell’Est europeo, convinta che la presenza della ragazza possa aiutarla a rimanere incinta. Dopo la fuga (e dopo aver dato fuoco alla casa), Miu si rifugia in un ristorante gestito da una donna cinese, dove la mafia dà in pasto ai maiali della proprietaria i cadaveri delle persone uccise. La ragazza inizia quindi un viaggio nella criminalità di Copenhagen, dove guerre tra clan, spaccio, prostituzione ed incesti sono la quotidianità di un mondo nel quale l’etica non sembra trovare spazio.

In Copenhagen Cowboy, Refn (che qui si firma con l’acronimo NWR) continua la propria ricerca verso un genere (anche) visivo che ormai è suo marchio di fabbrica, un “noir al neon” con una fotografia che si avvale di luci monocromatiche e di colori saturi, con il predominio di rosso e blu, dualità cromatica predominante lungo i sei episodi di questa prima stagione. Scenari anche psichedelici, che diventano quadri dove la profondità di campo sembra essere data proprio dall’utilizzo del colore.

Una fotografia distintiva in Refn, che sottolinea come l’esperienza di visione sia più importante della trama stessa, della continuità del racconto. In Copenhagen Cowboy c’è molta immagine e poco racconto, molto dinamismo visivo e poco sviluppo verbale. La serie si avvicina quasi all’esperienza delle installazioni di videoarte, in un susseguirsi di scene che possono anche essere fruite in maniera indipendente dall’evolversi della trama.

Uno studio delle scene che non risulta però apatico, grazie al continuo dinamismo dato dalle molteplici panoramiche circolari a 360 gradi, un lavoro del regista nello spazio che mostra un’interessante opera di costruzione nello sviluppo delle scene.

La serie di NWR si sviluppa grazie al predominio dell’immagine, unico linguaggio comunicativo in una sceneggiatura composta anche di molto silenzio e di tanto non detto. I dialoghi sono composti da piccole frasi, pronunciate sempre dopo attimi di sospensione che dilatano il tempo del racconto, ma che sono sintomo anche di una incomunicabilità di fondo, esplicitata ad esempio dai versi suini di Sven, marito di Rosella (l’anziana donna che ospita Miu per riuscire ad avere figli), e del serial killer di prostitute Nicklas. Versi che sottolineano l’istinto animale di un genere maschile che, nell’eccessività della sua violenza, risulta quasi ridicolo se paragonato al ruolo di primo piano che Refn ritaglia per le donne.

Interessante, in questo senso, il confronto tra la protagonista e Rakel, sorella di Nicklas, la cui comparsa nella serie ne sottolinea anche il lato paranormale: molto delle origini delle due ragazze viene lasciato al non detto, dettaglio che può indicare un probabile seguito di questa prima stagione. Nel finale, Miu si ritrova insieme ad altre ragazze, tutte vestite con una tuta blu uguale a quella indossata dalla protagonista in tutti gli episodi. Una monocromia che si scontra con il rosso di Rakel, nemesi enigmatica della “ragazza portafortuna”.

Nel molto non detto, compare comunque una flebile fiammella di speranza di una Copenhagen Cowboy capace di portare la propria enigmatica innocenza in un mondo fatto di degrado, dove l’etica lascia spazio ad un capitalismo totalizzante e senza freni, tema importante dell’opera del regista danese. Una fiammella che è flebile luce che rischiara nella monocromia, ma è anche inizio di un fuoco che arde. Fiamme lasciate a bruciare, con il sottofondo costante ed incisivo dell’elettronica di Cliff Martinez. Fuoco che arde, in una sceneggiatura con molti punti in sospeso, comunque in secondo piano rispetto all’esperienza visiva creata da NWR.

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