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La recensione

Avatar – La via dell’acqua: un ritorno a Pandora pieno di meraviglia

Tredici anni dopo, James Cameron mostra lo scontro della famiglia Na’avi di Jake Sully contro gli umani

Titolo: Avatar – La via dell’acqua

Titolo originale: Avatar – The Way of Water

Regia: James Cameron

Paese di produzione/anno/durata: USA/2022/192 minuti

Interpreti: Sam Worthington, Zoe Saldana, Stephen Lang, Sigourney Weaver, Kate Winslet

Programmazione: Cinema Del Borgo Bergamo, Arcadia Stezzano, Cinema Teatro Centrale Leffe, Cinema Garden Clusone, Iride – Vega Multisala Costa Volpino, Sala della comunità Branzi, Starplex Romano di Lombardia, Anteo SpazioCinema Treviglio, UCI Cinems Curno, UCI Cinemas Orio.

Nel 1896, i fratelli Lumière proiettarono uno dei loro film più famosi, L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat. L’inquadratura fissa di un binario, sul quale si muove un treno in direzione del pubblico, scatenò la paura dei primi spettatori, convinti che la locomotiva sarebbe uscita dal telo per investirli. Siamo agli albori del cinema, quando, nello stesso periodo, Georges Méliès capì come ideare i primi effetti speciali, fantasticando sul primo viaggio dell’uomo sulla Luna.

Lo stesso stupore, con le dovute proporzioni, si può provare oggi, grazie ad Avatar – La via dell’acqua, nelle sale dal 14 dicembre. A tredici anni dal primo Avatar, James Cameron ritorna su Pandora, ritrovando Jake Sully (interpretato da Sam Worthington, ormai integrato nella popolazione degli Omaticaya) e la compagna Neytiri (Zoe Saldana), che hanno formato una famiglia insieme ai loro tre figli Neteyam, Lo’ak e Tuk e i giovani Kiri (una Na’vi concepita dall’Avatar di Grace Augustine, ora defunta) e Spider (umano figlio di Miles Quaritch, nato su Pandora e mai tornato sulla Terra perché troppo piccolo per compiere un viaggio così lungo). Quando gli umani tornano sul pianeta alieno per provare di nuovo a colonizzarlo, Jake Sully e la sua famiglia devono fuggire e chiedere ospitalità al clan Metkayina, sulla costa orientale del pianeta. I terrestri infatti sono guidati da un clone di Quaritch, (un avatar che custodisce i ricordi del colonnello, interpretato da Stephen Lang) che vuole dare la caccia a Jake Sully, ritenendolo responsabile della sua morte e della rivolta dei Na’vi.

Nel ritorno su Pandora di James Cameron, ancora una volta, quello che stupisce di più è la tecnica. Se nel 2009, con Avatar, il regista canadese aveva per la prima volta girato in 3D e portato questa tecnologia nei cinema, con il sequel riesce a superarsi grazie ad ambientazioni in CGI e riprese dal vivo, high frame rate e riprese a 48 fps che portano il 3D ad un livello superiore.

Un uso della tecnologia che avvicina paradossalmente Avatar – La via dell’acqua alle origini del cinema, medium capace ancora oggi di generare stupore e meraviglia negli spettatori. Nel fare questo, James Cameron si affida ancora una volta ad uno degli elementi a lui più familiari. Dal primo Piraña paura (1982) a The Abyss (1989), da Titanic (1997, che a suo modo ritorna nel film) ad Avatar – La via dell’acqua (2022), per il regista l’acqua è sempre una costante. Un elemento che si accompagna alla tecnica, la Natura ai suoi massimi ricreata grazie all’evoluzione tecnologica. Una Natura presente in una continua dialettica con l’uomo, dove solo il rispetto può evitare la catastrofe. In questo senso, le scene spettacolari e terribili della distruzione che gli uomini portano su Pandora hanno un loro opposto nelle splendide immagini acquatiche che accompagnano Jake Sully e la sua famiglia nell’incontro con il clan Metkayna, Na’avi che vivono in stretto contatto con il mare e che danno ospitalità ai protagonisti, insegnando loro come interfacciarsi con l’ambiente marino. Narrazione che si accompagna in maniera efficace all’utilizzo del 3D, capace di far immergere gli spettatori in un mondo nuovo, anche grazie ad effetti speciali che non sono meri orpelli decorativi, ma elementi funzionali alla trama.

Attraverso la scoperta dei Metkayna, Cameron mostra diverse nuove specie presenti su Pandora, come i Tulkun (animali marini simili a balene), i predatori marini Akula o gli Ilu (simili a plesiosauri). Fauna e flora che diventano parte attiva della narrazione: gli spettatori fanno un vero e proprio viaggio verso una zona del pianeta non ancora esplorata, esempio dell’importante lavoro di worldbuilding del regista e dei suoi collaboratori (che prevede già altri tre sequel). Un viaggio che, nelle oltre tre ore di durata, immerge lo spettatore all’interno di un mondo nuovo attraverso una trama lineare (pur con qualche sbavatura), ma con continui stimoli visivi che permettono di vivere al meglio l’esperienza. Perché di questo si tratta: con Avatar – la via dell’acqua, James Cameron fa riscoprire al pubblico l’importanza dell’esperienza al cinema.

Nel film sono presenti poi una visione forse un po’ troppo patriarcale della famiglia (anche se non manca un’approfondita dinamica affettiva), la componente drammatica, il messaggio di ammirazione e di bisogno di salvaguardia della biodiversità, l’importanza dell’uguaglianza e dell’inclusività tra persone e popoli. Temi diversi, narrati però senza esagerazioni retoriche e con una tecnica che riporta all’essenza esperienziale del cinema: James Cameron sembra riportare in sala la purezza dello stupore. Una meraviglia che è viaggio e scoperta, ma anche poesia della fotografia e delle immagini. Avatar – La via dell’acqua è cinema e solo in sala può trovare la propria compiutezza: senza una visione 3D IMAX, molto del film viene a mancare.

La tecnica utilizzata da James Cameron ha il merito di ridare importanza al medium ed alla visione collettiva, grazie all’emozione proveniente dalla visione stessa. Tecnica capace di ricreare al meglio l’ambiente marino e le sue caratteristiche, ma anche di dare risalto alla profondità durante le scene d’azione. Una lunga immersione che riconduce alla (quasi) ossessione del regista per l’acqua. “L’acqua connette tutte le cose: la vita alla morte, il buio alla luce” spiega Tsireya, figlia del capo-clan dei Metkayina. Una connessione che riporta la poetica del regista, tra elemento liquido ed esasperazione della tecnologia, allo stupore del cinema delle origini.

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