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L'analisi

Perché il capitalismo c’entra davvero con le rivolte in Iran

Il movimento di protesta potrebbe perciò aumentare d’intensità in modo difficile da prevedere, oppure spegnersi lentamente, lasciando però le braci a covare sotto la superficie in attesa di riesplodere con cadenza più o meno ciclica, come è accaduto negli ultimi anni

It’s the economy, stupid.” Lo disse anni fa un presidente degli Stati Uniti non sospettabile di simpatie marxiste e lo hanno detto in questi anni migliaia di pagine di pubblicazioni accademiche, progetti di ricerca, rapporti di istituzioni internazionali e analisi di istituti privati: è impossibile pensare di capire i sommovimenti del Medio Oriente e del Nord Africa senza guardare anche alle questioni economiche e demografiche.

Sembra una constatazione talmente ovvia da risultare banale: le dinamiche relative alla produzione e distribuzione di ricchezza, alla disoccupazione, alle diseguaglianze, alle forme del mercato del lavoro producono effetti sociali e politici anche nelle società mediorientali e nordafricane.

Nessuna persona dotata di comprendonio nega che esistano altri fattori di tensione e conflitto, come quelli religiosi, etnici, tribali o generazionali. Tutti questi fattori, tuttavia, si impastano spesso tra di loro e a loro volta si sovrappongono a rivendicazioni e tensioni di natura economica.

Nel corso degli ultimi anni, una copiosa produzione scientifica ha – per esempio – messo in luce il ruolo e le conseguenze delle politiche di aggiustamento strutturale nei paesi mediorientali, caldeggiate dal Fondo monetario internazionale, oppure gli effetti contraddittori delle politiche di liberalizzazione degli scambi commerciali sia tra le due sponde del Mediterraneo sia tra paesi della sponda sud.

Delle cosiddette “primavere arabe”, cioè delle manifestazioni e rivolte che hanno scombussolato gli assetti politici della regione tra la fine del 2010 e i primi mesi del 2011, sono state ampiamente messe in luce le cause economiche, legate alla disoccupazione, alla stagnazione e alla percezioni di vivere in società bloccate e diseguali, e gli effetti, variamente mettendo in luce un ulteriore peggioramento delle condizioni per via dell’instabilità politica oppure perorando la necessità di un nuovo contratto sociale a partire dalla riforma dei mercati del lavoro.

Non manca un’amplissima letteratura sull’economia politica delle rendite nei cosiddetti rentier states, ossia in quei sistemi politici che si appoggiano alla redistribuzione di rendite derivanti dalla vendita per esempio di petrolio e gas.

Migliaia di serissime pagine di studi scientifici e conferenze accademiche sono state dedicate a una disamina delle forme ibride di capitalismo, perlopiù oligarchico e clientelare, che si sono instaurate negli ultimi decenni tra Nord Africa e Medio Oriente, per esempio sottolineando il ruolo delle forze armate come punta di lancia del capitalismo di stato in Egitto, per il quale si utilizza la categoria di capitalismo militarizzato.

Le caratteristiche di un’economia orientata al mercato, secondo un modello di tipo capitalista, e allo stesso tempo parte integrante di un sistema politico autoritario sono state studiate anche nel caso della Siria baathista, in particolare dopo le riforme attuate da Hafiz al-Asad nel corso degli anni Novanta.

Dello stato come incubatore di un capitalismo domestico si parlava già alla metà degli anni Ottanta con riferimento all’Iraq di Saddam Hussein.

Si è parlato di capitalismo anche relativamente all’Iran, sia nella prospettiva di una storia economica dello sviluppo in epoca qajar (la dinastia che guidò il paese nel diciannovesimo secolo) sia guardando alle dinamiche di crescita economica e investimenti interni prima e dopo la rivoluzione del 1979.

Alla luce di tutte queste premesse, non dovrebbe destare scalpore che si possano analizzare in modo attento e scrupoloso le caratteristiche economiche e sociali dell’Iran, investito nelle ultime settimane da amplissime proteste che hanno fatto seguito alle note vicende della morte di Jina Mahsa Amini.

Un’analisi della cornice economica e sociale: è ciò che ha proposto Stella Morgana, una ricercatrice italiana attualmente con una borsa post-dottorato in Gran Bretagna, in un recente articolo, nel quale si sofferma sulle difficoltà degli operai iraniani a realizzare una forma strutturata e continuativa di sostegno alle donne e agli uomini che da settimane protestano contro le violenze e le repressioni degli apparati di sicurezza della repubblica islamica.

La tesi dell’articolo è che questa difficoltà nasca dalla fragilità e frammentazione dei sindacati e delle organizzazioni di categoria, che rendono faticoso un coordinamento capillare e l’emersione di figure forti e riconoscibili a livello nazionale. Secondo l’autrice, che si basa su numerose fonti accademiche e interviste a economisti iraniani oltre che dal suo lungo lavoro di ricerca sul campo, la debolezza delle organizzazioni operaie nasce in buona parte dalle riforme del mercato del lavoro che, dagli anni Novanta in poi, hanno creato forme di precarizzazione sempre più dilaganti.

Nessuno, tanto meno Morgana, scrive che le donne iraniane scendono in piazza contro il neoliberismo o il sistema capitalista. Il punto è invece come le politiche economiche perseguite in Iran nell’ultimo quarto di secolo spieghino da un lato una parte delle cause del malcontento (che sono anche sociali ed economiche, oltre che legate alle forme di espressione personale e libertà di comportamento negli spazi pubblici) e, dall’altro lato, anche la difficoltà a creare alleanze ampie e trasversali che possano creare un fronte compatto di opposizione al sistema politico vigente.

È questa una lettura equilibrata che tiene conto dei diversi fattori, allontanandosi da un assortimento di stereotipi e mitologie rassicuranti, ed è per questo ancora più desolante che l’articolo di Morgana sia stato oggetto di un’indecorosa “shitstorm” a cui si sono sciaguratamente accodati anche Carlo Calenda e Giorgio Gori. Il primo dei due ha recentemente raccomandato di leggere, ed è un vero peccato che non abbia voluto seguire la sua stessa raccomandazione, fermandosi a giudicare un articolo dal suo titolo invece che arrivare fino in fondo e leggerne le note bibliografiche.

È desolante, ed è una spia dell’incapacità di una larga parte della classe politica italiana di stare al passo con la complessità del mondo e con le sue trasformazioni, che si privilegi l’obiettivo di dare una vittima sacrificale in pasto alla canea dei propri sostenitori accaniti, con toni e termini nettamente ascrivibili alla categoria del bullismo mediatico (ossia proprio quello che si critica in Donald Trump e Elon Musk), rinunciando alla possibilità di un dibattito, anche con posizioni legittimamente diverse e però seriamente argomentate.

Viene il sospetto che le vicende del mondo, già confuse e preoccupanti per conto loro, siano lette e commentate perlopiù al fine di segnare qualche magro punto nello scenario politico italiano.

Tornando all’Iran, pare aver suscitato molto scalpore l’uso del termine “neoliberismo”, un concetto di cui non esiste una definizione univoca e che non traduce pienamente l’uso ampiamente attestato del termine neoliberalism nella letteratura in lingua inglese. Non aiuta in questo senso il fatto che le fondazioni caritatevoli (bonyad) e il corpo delle guardie della rivoluzione (pasdaran) occupino quote di mercato molto ampie, rendendo impervia la distinzione tra pubblico e privato. Ma quand’anche chiamassimo “x” o “capitalismo di stato” o in qualsiasi altro modo il sistema iraniano, la domanda di ricerca resterebbe: in che modo le politiche economiche, e in particolare quelle di deregolamentazione nell’ambito del mercato del lavoro, alimentano il malcontento di ampi strati della società iraniana?

Paiono dimenticati gli scioperi e le manifestazioni che hanno attraversato l’Iran per tutto il 2018, proprio partendo dalla protesta contro la grave situazione economica (ulteriormente peggiorata dalla riapplicazione da parte dell’amministrazione Trump delle sanzioni che erano state tolte nel quadro del JCPOA, ossia il processo negoziale sul dispositivo nucleare iraniano) e da rivendicazioni salariali e sindacali, come aveva in luce persino un istituto apertamente liberista come l’American Enterprise Institute.

Restano valide alcune considerazioni già avanzate per le proteste del 2018 e poi per quelle ancora più sanguinose del novembre 2019: il ciclo vizioso di proteste, repressione, aumento delle proteste e ulteriore aumento della repressione, che rende più difficile un coordinamento unitario; e il carattere non organizzato del movimento di protesta, che rappresenta tanto un possibile punto di forza (non ci sono vertici da eliminare) quanto un possibile punto di debolezza, dal momento che impedisce il coagularsi di una piattaforma politica alternativa dentro un sistema politico caratterizzato da decenni da un’aspra competizione tra diverse fazioni interne alla repubblica islamica, tanto da dover mettere in discussione anche le distinzioni troppo semplici tra riformisti e conservatori.

Il movimento di protesta potrebbe perciò aumentare d’intensità in modo difficile da prevedere, oppure spegnersi lentamente, lasciando però le braci a covare sotto la superficie in attesa di riesplodere con cadenza più o meno ciclica, come è accaduto negli ultimi anni.

*Francesco Mazzucotelli, docente all’Università di Pavia

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