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La recensione

Forever Young: desiderio febbrile di vita e tragedia alla scuola di Chéreau video

Valeria Bruni Tedeschi continua la propria opera autobiografica mostrando l’esperienza giovanile alla scuola del Théâtre des Amandiers

Titolo: Forever Young

Titolo originale: Les Amandiers

Regia: Valeria Bruni Tedeschi

Paese di produzione/anno/durata: Francia, Italia/2022/125 minuti

Interpreti: Nadia Tereszkiewicz, Sofiane Bennacer, Louis Garrel, Micha Lescot, Clara Bretheau, Noham Edje, Vassili Schneider, Eva Danino, Liv Henneguier, Baptiste Carrion-Weiss, Léna Garrel, Sarah Henochsberg, Oscar Lesage, Alexia Chardard

Programmazione: Conca Verde, UCI Cinema Orio

Un desiderio febbrile di vita, che prende slancio dal palcoscenico per debordare all’esterno. È il desiderio che muove gli studenti del Théâtre des Amandiers protagonisti di Forever Young, il nuovo film di Valeria Bruni Tedeschi, in sala dal 1 dicembre. Il titolo originale, Les Amandiers si rifà proprio al nome del teatro edificato nella periferia parigina di Nanterre, diretto da Patrice Chéreau, dove si è formata un’intera generazioni di attori del cinema francese: Eva Ionesco, Noémie Lvovsky, Agnès Jaoui, Vincent Perez, Bruno Todeschini, Marianne Denincourt e la stessa Valeria Bruni Tedeschi.

Regista che gira il suo film forse più autobiografico, ricordando quando, a metà degli anni Ottanta, mise in scena con i compagni della scuola di recitazione il Platonov di Checov, diretti appunto da Chéreau. Un ricordo che non trasmette però nostalgia, quanto l’afflato continuo verso la recitazione di una generazione di giovani attori, desiderosi di imparare dai maestri per prendersi il mondo esterno, in un anelito di vita e condivisione di esperienze, che deve però fare i conti con le insidie della società. Tra i protagonisti, alter ego di Valeria Bruni Tedeschi è Stella (interpretata da Nadia Tereszkiewicz), che si ritroverà ad inseguire il proprio sogno di attrice in maniera totale, fino a quando non scoprirà anche i lati negativi di un amore corrisposto vissuto appieno.

La regista, attraverso un montaggio veloce, ma non esasperato, calibra in maniera ottimale il susseguirsi degli eventi, dai provini per l’ammissione alla scuola (dei quali vediamo ansie e paure di giovani attori, lontane dalle performance strabilianti più vicine a certo cinema hollywoodiano) alle lezioni, dagli amori impetuosi alle gioie della vita esterna, fino al dramma della droga ed al sollievo che permette di non interrompere la propria corsa nella vita. Il Théâtre des Amandiers è casa sicura, luogo di crescita artistica, di continua ricerca di novità e sperimentazioni, fino a quando in sala non entra prepotente la vita esterna, in maniera diretta e drammatica. L’incoscienza, la frenesia dei sentimenti e la vitalità della recitazione devono lasciare posto ai drammi dell’Aids e della tossicodipendenza, oltre che alle notizie inquietanti provenienti da Chernobyl.

Valeria Bruni Tedeschi mette in scena l’inesauribile forza creatrice della giovinezza messa alla prova con i drammi di fine anni Ottanta, attraverso una regia che accompagna ed indugia sui corpi dei protagonisti. Corpi che sono ragazzi con i loro drammi e le loro speranze, ma anche corpi attoriali, decisi a spendersi per raggiungere il proprio obiettivo. Corpo che diventa poi prigione quando deve fare i conti con il dramma della tossicodipendenza. Così lo sguardo della regista si stringe, anche attraverso l’uso dello zoom, cercando il volto e il corpo dei protagonisti, mentre utilizza lunghe lenti focali per inquadrare da lontano l’esigente direttore artistico Patrice Chéreau (interpretato da Louis Garrel), vera e propria leggenda vivente.

Uno sguardo capace però di tenerezza, che non giudica e che evita di spettacolarizzare il dramma, lasciando che sia la vita a mostrarsi per ciò che è. Uno sguardo che riporta al vissuto mostrato da Bruni Tedeschi, anche grazie alla fotografia di Julien Poupard che si serve di una grana particolare per ricorrere alla memoria delle immagini. Il riferimento al Super16, insieme a piani-sequenza, zoom e dolly che lasciano libertà espressiva e di movimento agli attori, riescono ad esprimere bene le speranze e le disillusioni del periodo, trasmettendo anche un po’ di nostalgia di fondo.

I protagonisti portano sé stessi in scena, come Chéreau ha insegnato loro, con le proprie gioie ed i propri dolori. Palco di un teatro come esperienza totalizzante, che nella finzione della trama diventa vita, incapace di distinguere l’individuo reale dalla dramatis persona. Una vita che deve essere vissuta appieno, pur con qualche privilegio che possa permettere un viaggio all’Actors Studio di New York. Rimane comunque il ritratto di una generazione che ha fatto del teatro il proprio porto sicuro per affrontare la vita. Un’esperienza allo stesso tempo compiuta e irrisolta, dove il mondo esterno sembra rimanere vigile per presentare il proprio conto, dove l’energia e la trasgressione dei vent’anni rimangono in contrappunto con le tragedie che la circondano.

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