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L'allarme

Latte e formaggi, aziende in crisi: “Costi quintuplicati: con le imprese rischiamo di perdere anche saperi e tradizioni”

Francesco Maroni, presidente del progetto Forme e dell'associazione Cheese Valleys - Le Tre Signorie, illustra una situazione drammatica: "Le aziende non possono lavorare in perdita e nemmeno rischiare di farlo: dalla nostra filiera ne dipendono moltissime altre"

Il settore lattiero-caseario, primo per fatturato complessivo dell’industria alimentare italiana, a Bergamo trova la sua massima espressione, con il record di nove formaggi a denominazione di origine protetta (Dop) che non ha eguali a livello europeo.

Una ricchezza incredibile, di storie, tradizioni e cultura del lavoro, che ha portato anche al riconoscimento di Bergamo come “Città Creativa Unesco per la Gastronomia” e alla fondazione del Distretto della Gastronomia Italiana che comprende anche le altre “Città Creative” Parma e Alba.

Un patrimonio invidiabile che, però, da mesi viene minacciato dall’esplosione dei costi di produzione, tra caro energia e quello delle materie prime: problematiche che ormai non risparmiano alcun settore, ma alle quali si aggiunge il dramma della siccità che tra fine primavera ed estate ha tormentato il territorio provinciale.

Così la filiera sta affrontando una fase difficile e delicata, addirittura peggiore di quella con la quale si era dovuta confrontare durante la prima ondata pandemica del 2020: in quell’occasione tutto il settore, con grande capacità di adattamento, si era riorganizzato per assicurare fornitura e distribuzione, mentre oggi l’impennata dei costi e la scarsa disponibilità di materie prime rende tutto ancor più complicato. E drammatico.

“Il costo delle materie prime, come il latte, è praticamente raddoppiato e così i costi di gestione – spiega Francesco Maroni, presidente del progetto Forme e dell’associazione Cheese Valleys – Le Tre Signorie, nonchè titolare della Latteria Branzi – Raccolta del latte e successive produzioni richiedono un riscaldamento importante della materia prima, poi un raffreddamento e infine la conservazione. Quanto incidono i rincari? Spendiamo circa 5 volte e mezzo in più rispetto allo scorso anno“.

Le difficoltà maggiori le stanno avendo le aziende di montagna, già penalizzate da una conformazione territoriale tutt’altro che semplice: “Ai maggiori costi di raccolta del latte, spesso, corrispondono anche dimensioni minori delle imprese e quindi minore capacità di assorbire i problemi – aggiunge Maroni – Con la siccità che abbiamo sperimentato quest’anno siamo rimasti a corto di foraggi e i mangimi hanno prezzi proibitivi. Il settore è sotto torchio, inutile negarlo: ma ricordiamoci che è primario e che il lattiero caseario trascina molte altre filiere legate all’alimentare”.

Sentendo parlare di aziende che, per i suddetti problemi, faticano a star dietro alla domanda di prodotti apprezzati (e purtroppo copiati, male) in tutto il mondo a Maroni scappa un sorriso: “Quello è solo un ‘happy problem’ – commenta amaramente – In Lombardia produciamo il 50% di tutto il latte italiano e l’export del caseario è trainante per il nostro Pil: queste nuove dinamiche subentrate ci mettono in difficoltà, perchè pur avendo aumentato del 25% i prezzi non riusciamo a far fronte ai rincari. È chiaro che il nostro settore non può riversare più di tanto sui clienti gli aumenti, mentre per altri è più semplice scaricare il problema”.

A preoccupare, però, sono anche le poche certezze a medio-lungo termine: “Vi faccio un esempio – illustra Maroni – Noi siamo un settore che abitualmente è molto stabile nei suoi listini, con poche modifiche. Quest’anno, invece, abbiamo già avuto 6-7 variazioni, con continue oscillazioni del prezzo della materia prima, e anche per i produttori e trasformatori diventa complesso stare al passo. Però siamo obbligati a farlo, perchè altrimenti si rischia di fallire e chiudere”.

Un problema reale, con piccole realtà che hanno sempre vissuto di una tradizione di famiglia da tramandare, con pochissima forza lavoro a disposizione e disponibilità economiche già limitate: “A livello italiano stiamo assistendo a tantissime acquisizioni, sia da parte di grandi gruppi ma anche di chi più piccolo prova a mettersi insieme. Negli ultimi anni siamo stati tutti messi alla prova a livello piscofisico e non possiamo far altro che sperare di uscirne il prima possibile. Il tema dei costi energetici, purtroppo, non può essere governato a livello locale: vive di dinamiche e speculazioni internazionali e lo Stato deve fare la sua parte in questo contesto per aiutarci. Non so in che modo,  ma non può essere altrimenti. Le nostre aziende non possono lavorare in perdita e nemmeno rischiare di farlo. Nel nostro piccolo, con lo strumento dei consorzi, qualcosa abbiamo provato a fare per tutelarci, ma non basta. Noi come settore ci stiamo sforzando sempre di più di interagire tra noi, stringendo partnership strategiche tra operatori. Bisogna far fronte alle spese, trovando un’efficacia maggiore lavorando singolarmente o in forma associata: è la sfida alla quale siamo chiamati nei prossimi mesi, se non anni”.

Le difficoltà attuali richiamano ovviamente quelle vissute in pandemia, ma i produttori bergamaschi si sentono molto più fragili: “È vero – ammette Maroni – Durate il Covid le vacche non hanno smesso di fare latte e la filiera si è dovuta organizzare per lavorarlo tutto e non lasciare indietro nemmeno un litro. La grande distribuzione ci ha supportati, ha fatto da catalizzatore per gli acquisti e in termini di vendita abbiamo tenuto, perchè i nostri prodotti sono di largo consumo. Il problema è che l’onda lunga di quell’emergenza perdura oggi sotto altre forme: l’inflazione ci mette sotto pressione in altri sensi, finanziario, organizzativo e strutturale. Ricordiamo che la nostra filiera ha margini da distribuzione alimentare e quindi non elevatissimi: oggi facciamo fatica a dare continuità e a far quadrare i conti, perchè nonostante tutto i contratti del latte vanno rispettati, il latte va comunque lavorato. La situazione è davvero complessa e pur essendosi sempre dimostrato un settore capace di tenere botta, il lattiero caseario non può reggere all’infinito. Noi operatori rischiamo di impazzire, ma poi a risentirne è tutta la filiera che è molto sensibile a queste oscillazioni. Anche perchè le aziende produttrici devono continuare a dare risposte in tema di alimentazione, sostenibilità, benessere animale, tenuta del territorio. I trasformatori devono invece conservare i prodotti, quindi garantirne la sicurezza nei vari passaggi da latte e formaggio, con tutte le problematiche connesse di confezionamento, catena del freddo ecc. Superfluo ricordare cosa c’è in gioco: il valore del latte e dei suoi derivati per la nostra alimentazione, con prodotti che entrano trasversalmente in innumerevoli settori, ristorazione in primis”.

L’appello finale è quasi disperato: “Il settore va tutelato, in qualche modo – conclude Maroni – Una filiera quando è persa è persa per sempre. Se chiude un’azienda agricola poi non si trova da un giorno all’altro chi fa l’allevatore, così come se chiude un caseificio. C’è tutto il tema del trasferimento delle tradizioni, del saper produrre. Si perdono saperi, non solo aziende. Ogni settore ha le sue criticità, ognuno è importante per la sua filiera: quella alimentare e lattiero casearia nell’ambiente food è imprescindibile. Il momento è delicato: tutti devono fare la propria parte”.

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