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La riflessione

Suicidi tra le Forze dell’Ordine: una strage silenziosa

Non è la criminalità la prima causa di morte violenta tra le forze dell’ordine italiane ma il suicidio

Il fenomeno del suicidio da parte di lavoratori in divisa è grave non solo perché è in forte aumento, ma perché non è dato il modo di conoscere meglio questo fenomeno, anche se negli anni è stato analizzato con convegni, riunioni, protocolli nei quali si sviluppano analisi importanti e si ricercano soluzioni.

Si parla di un fatto sicuramente non nuovo, ma il come e il dove avviene crea sospetto e ansia, perché un suicida in divisa ogni 5 giorni, è un dato spaventoso anche per la generale giovane età ed il lavoro che compiono.

Da una classifica formulata dall’Osservatorio Suicidi in Divisa (OSD), aggiornato per il 2022ai primi di agosto, si indica in 57 il numero di queste persone suicidate; quello che colpisce è che figure importanti impiegate nella tutela del cittadino e nella lotta alla criminalità, subiscano una lacerazione così significativa nel loro contesto, e seppure indossano un’ uniforme si lascino colpire dal male oscuro. Lo stesso Osservatorio formula una classifica per ordine di grandezza di questi tragici eventi, non in rapporto percentuale in base agli appartenenti alle singole forze, ponendo al primo posto i Carabinieri, seguono a distanza Polizia di Stato, Guardie Giurate, Polizia Penitenziaria, e con numeri molto minori gli altri corpi in divisa (Polizia locale, Guardia di Finanza e Marina).
Se il tasso dei suicidi in Italia è dello 0,60 per mille nella popolazione normale, esso sale all’1 per mille tra gli agenti di polizia e all’1,30 per mille tra gli agenti di polizia penitenziaria.
In alcuni documenti ufficiali resi pubblici, si afferma, e concordo, che l’atto suicidario è un atto premeditato, covato nel silenzio del proprio male di esistere, ma affermare che è volontario mi induce a due riflessioni: fino a che punto la volontà è totalmente libera al momento dell’ agire suicidario? Inoltre, siamo consapevoli che il suicidio, salvo i casi d’impeto, maturi in un tempo più o meno lungo, con diversi campanelli d’allarme?

Quali? Un lutto in famiglia, la fine d’una relazione, un declassamento o un mancato scatto di carriera, magari per colpa di una punizione o procedimento disciplinare ingiusto, o peggio per un difetto fisico intellettivo. Ecco i campanelli cui prestare attenzione, magari a partire dai sintomi di cedimento, a volte però impercettibili.

Nella maggior parte dei casi i sintomi sono subdoli; l’operatore in divisa, anche per paura di vedersi bloccata la carriera, sceglie il silenzio ed allora la malinconia cresce dentro di lui finché matura l’idea del suicidio, in un tempo dove la persona avrà mostrato una sua difficoltà a vivere, ad essere presente, a partecipare, o viceversa, ha esibito reattività silente, isolandosi, o non comunicando coi colleghi.

Il suicida “vero”, quello che ha in sé il male di vivere, vede nella morte la soluzione ai suoi problemi e non pensa minimamente a rendere partecipe gli altri del suo gesto, perché questo lo reclama come suo contrappasso al non essere accettato. Le istituzioni e i comandi generalmente cercano di non diffondere il fatto, comunque lo rimandano al peso di situazioni personali vissute, prevenibili e curabili con psicologi, tesi emersa nei convegni e nella proposte degli enti interessati al problema. Nessun accenno, invece, all’aspetto sociologico-lavorativo (il mal di vivere forse non dipende anche da una non lungimirante organizzazione del lavoro e della vita di caserma?) e di adattamento all’ambiente sia esso di caserma che di carcere, dove, in quest’ultimo caso, si è a contatto con una criminalità sempre pronta ad assecondare, ammiccare…..non a caso i più esposti sono gli appartenenti alla polizia penitenziaria.

Se poi ogni categoria di suicidi ha i suoi strumenti di esecuzione, per il lavoratore in divisa è l’arma di ordinanza in dotazione. Questa per chi la porta è una parte non solo della divisa ma col tempo diviene parte del suo corpo perché si confonde con le parti del vestiario fino a essere percepita come una parte del suo corpo. Una parte essenziale, e se usa la pistola sa di usare una parte amica che non la/lo tradirà nel suo gesto, anzi rassicura che andrà a buon fine, si tratta anche di una questione che porta con sé implicazioni relative alla sicurezza dei familiari del lavoratore in divisa, da non sottovalutare.

Che cosa si può fare?
Le organizzazioni sindacali di categoria supplicano urgenti misure al contrasto dei suicidi nelle Forze dell’Ordine, in particolare quelle più colpite, Arma dei Carabinieri e Polizia penitenziaria.

Le risposte che vogliono mettere in campo difficilmente potranno debellare in toto il fenomeno, anche perché le cause sono molteplici e non sempre riguardano direttamente la persona in divisa, in quanto la stessa divisa porta in se tre elementi inscindibili, come l’individuazione, l’uniformità, il potere. Personalmente, credo sia necessario avere risposte urgenti al significato di chi e come deve essere una persona in divisa, in proposito sono due gli aspetti che non possano essere trascurati.

Il primo è che il lavoro in divisa, se da un lato facilita la visibilità e l’individualizzazione delle sue funzioni, dall’altro uniforma ad un protocollo, forse obsoleto, che altamente crea stress. Il secondo è che l’unica risorsa vincente che possiamo utilizzare, a breve, è quella della prevenzione, data dall’ ascoltare chi ti è accanto, percepire il disagio e fornire aiuto, e non ad emarginare, o denigrare,
avvertimento questo che vale per noi e per tutte le categorie a rischio.

La soluzione più pressante e immediata, come detto, è dare un supporto psicologico (si spera non da esperti scelti dall’amministrazione con i quali nessuno si sentirebbe preservato su quanto riferito), attraverso la creazione di momenti istituzionali dove poter esprimere propri dubbi e incertezze, rancori e incomprensioni in modo libero, senza timore di ripercussioni sulla carriera o biasimi detti sotto voce, gestiti da chi conosce il problema ma è neutrale rispetto alla Struttura.

Occorre creare uno strumento di lavoro che si applica nel posto di lavoro (caserme, comandi, carceri, uffici ecc.…) che porti ad ottenere comprensione, visualizzazione, appartenenza, coscienza e limiti del potere che la divisa porta in se, perché le condizioni di vita e di lavoro del personale in divisa vanno corrette e sorrette oggi.
Non domani.

Domani non vogliamo piangere altri colleghi che scelgono il fine vita come l’unica soluzione possibile, dimenticando che la vita è il più grande dono che una persona riceve. Nessuno più attui il suicidio solo per avere un attimo di tregua ad una sofferenza nata anni prima, mai espletata, nella speranza cessasse, ma invece “gutta cavat lapidem”, come dicevano i latini, è stata la goccia costante che scava nella roccia, il solco necessario per dire: basta, non voglio più vivere.

*Antonio Nastasio è un ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza.

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