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L'analisi

Gli Stati Uniti, egemoni claudicanti nel nuovo disordine mondiale

La riflessione di Francesco Mazzucotelli, esperto di politica internazionale e docente all'Università degli Studi di Pavia

È possibile riflettere sul ruolo presente e futuro degli Stati Uniti d’America come unica superpotenza globale esulando dalle professioni di ortodossia atlantica e di antiamericanismo a prescindere che hanno caratterizzato (e spesso avvelenato) il dibattito pubblico negli ultimi mesi?

Una risposta affermativa sarebbe possibile solo vivendo in una di quelle ville fiesolane nelle quali si erano rifugiati i protagonisti del Decameron per sfuggire alla peste o, ai nostri giorni, al riparo dalle tensioni provocate dalla guerra in Ucraina, dalla crisi economica ed energetica, e dalle preoccupazioni per uno scenario mondiale sempre più in ebollizione, non solo dal punto di vista climatico.

Parlare del ruolo degli Stati Uniti e valutare la congruità tra obiettivi asseriti e strumenti utilizzati non solo chiama in causa le categorie politiche con cui leggiamo il mondo, ma fa emergere contraddizioni e tensioni latenti in maniera trasversale agli schieramenti politici nostrani, riportando in auge antiche linee di fratture e scoprendone di nuove.
Personalmente credo che sia onesto abbandonare la pretesa di avere in tasca la verità assoluta e invece rendere trasparente il proprio posizionamento. I miei legami personali, gli studi e i lati positivi che riconosco a questo paese non diluiscono un senso di forte critica nei confronti delle linee di politica estera che gli Stati Uniti hanno perseguito negli ultimi decenni, particolarmente in Medio Oriente, Africa e America Latina.

È qui che, a mio opinabilissimo avviso, la politica americana ha mostrato ipocrisie e contraddizioni tali da rendere vacue molte declamazioni di valori e principii morali che pure in sé sarebbero del tutto condivisibili. Emersi dallo schianto dell’Unione Sovietica come unica superpotenza globale, gli Stati Uniti hanno sperperato nelle campagne mediorientali il capitale simbolico che avrebbe permesso di ergersi come motore, volante e guida morale di quell’ordine liberale globale uscito vincente dalla fine della guerra fredda.

In un esercizio di storia controfattuale, che tanto poco piace a chi deve insegnare che la storia non si ricostruisce con i “se”, conviene per una volta chiedersi cosa sarebbe successo se il lungo processo di integrazione europea, invece di incagliarsi in un allargamento farraginoso e di ridursi quasi solamente a politiche monetarie e finanziarie di rigida austerità, fosse stato in grado di costituire per davvero un soggetto capace di una politica estera e di sicurezza coerente e autonoma. Conviene chiedersi se tale soggetto avrebbe potuto valutare le differenze tra interessi dei paesi europei e interessi di Washington (nel Nord Africa, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, per esempio) e cercare di porre le basi per una relazione simmetrica tra le due sponde dell’Atlantico.

La Brexit, troppo frettolosamente archiviata come una reazione di pancia di isolani snob e campagnoli ignoranti, appare invece oggi come una scelta perfettamente coerente per quanti ritengono preferibile il rafforzamento dell’asse atlantico al posto di una più forte integrazione dell’Europa di mezzo.

Tra una (pseudo) gaffe e l’altra, Biden si è lasciato più volte sfuggire l’obiettivo di una politica estera americana, ripreso anche dal documento strategico della NATO trapelato dal vertice di Madrid: una funzione globale dell’alleanza militare atlantica a trazione americana, identificando la Russia come una minaccia esistenziale e la Cina come una sfida agli interessi e alla sicurezza nel lungo periodo.

La difesa del primato americano nel mondo si traduce nell’idea di una guerra a oltranza per ridurre la Russia ai minimi termini e forse tentare di provocare un “cambio di regime” (ma senza sapere chi mettere al posto di Putin, rischiando di replicare su scala maggiore gli errori già visti in Afghanistan, Iraq, Libia), e prepararsi alla grande contrapposizione ventura con la Cina.

In un 4 luglio 2022 segnato da un’ennesima sparatoria di massa vicino a Chicago, due punti sembrano particolarmente meritevoli di attenzione.

Il primo: il recente pronunciamento della Corte Suprema che ha ribaltato il verdetto nel caso Roe v. Wade non tocca solo i corpi di milioni di donne e il loro possibile accesso all’interruzione volontaria di gravidanza e all’aborto medicalmente assistito. Se si legge il dispositivo insieme all’altra sentenza che ha limitato i poteri dell’agenzia federale per la protezione dell’ambiente (EPA), accogliendo il ricorso di alcuni stati federati contrari al piano di riduzione delle emissioni di gas nell’atmosfera, si ha di fronte un ulteriore tassello nel tentativo di trasformare di fatto gli USA in una confederazione, come ai tempi di “Via col vento”. La tendenza pare quella di lasciare ai singoli stati una sempre più ampia discrezionalità per quanto riguarda la definizione e l’applicazione dei diritti fondamentali della persona. Decenni di critica non solo repubblicana, ma anche libertaria e persino democratica, contro il “big government” non hanno foraggiato soltanto la retorica di Donald Trump, che diceva di voler “bonificare la palude” di Washington e di opporsi allo “stato profondo” dei corridoi dei palazzi del potere. Lo smantellamento dello stato centrale, preparato da decenni di cinema, sceneggiati televisivi e informazione televisiva, passa ora anche attraverso la via giudiziale. Sarà esiziale capire se e come evolverà questa tendenza, e se le elezioni presidenziali e parlamentari potranno invertirla.

Il secondo punto: come cambierà il rapporto con i BRICS, ossia il coordinamento politico tra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, dopo il recente vertice di Pechino in cui Xi Jinping ha promosso il modello cinese di cooperazione multilaterale e criticato la mentalità della contrapposizione tra blocchi internazionali? Il primo ministro indiano Narendra Modi si è affrettato a dichiarare di opporsi a una deriva “antiamericana” all’interno dei BRICS, ma il tentativo della passata amministrazione USA, teso a siglare una forte alleanza indo-pacifica con India, Giappone e Australia, deve fare i conti con un quadro più complesso di tante semplificazioni in voga alle nostre latitudini.

India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Israele, Turchia (solo per fare alcuni nomi) si muovono in maniera autonoma, talora spregiudicata, sulla base della loro percezione di interesse nazionale del momento. L’Africa rappresenta un grande punto interrogativo. In America Latina, la vittoria di molti candidati di sinistra (per certi versi più “nazionalisti di sinistra” che marxisti in senso tradizionale) è spesso il prodotto dell’insofferenza per le ingerenze americane. Ci immaginiamo un mondo diviso mentalmente e militarmente tra un Occidente (libero e democratico) e un Oriente (autocratico), tra est e ovest, senza fare veramente i conti con lo spostamento del baricentro del mondo verso un sud globale che ragiona secondo altre logiche, che poco conosciamo e ancora meno cerchiamo di capire.

Sapranno gli Stati Uniti porsi di fronte a questa sfida oppure le loro amministrazioni di diverso colore tenderanno a replicare la logica della guerra fredda?

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