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Bergamo

Teresa Mazzotta, l’empatia femminile nel carcere provato da pandemia e inchiesta

Dal 2018 dirige l'istituto penitenziario di Bergamo: "A questo ruolo era attribuita un'idea di forza, tipicamente maschile, mentre le direzioni femminili puntano più sul dialogo, sull'ascolto e i risultati si vedono"

Bergamo. L’empatia. Una qualità tipicamente femminile che è stata scelta come filosofia per la gestione del carcere di via Gleno, un luogo fatto di persone recluse che hanno un estremo bisogno di vedersi tendere una mano.

Alla direzione dell’istituto penitenziario Don Fausto Resmini dal 2018 c’è una donna.

È Teresa Mazzotta, 53 anni, sposata, una lunga carriera alle spalle e tanta preparazione, fermezza mista a dolcezza, dialogo e comprensione alla base del suo agire in un ambiente che gli stereotipi vogliono tipicamente maschile.

In realtà sono tante in Italia le donne a capo delle strutture carcerarie. “Un tempo l’accesso a posizioni dirigenziali nei penitenziari era vietato alle figure femminili ma, non appena si è aperta questa possibilità, sono state in tante a partecipare ai concorsi. Nel mio, che risale al 1997, il 70 per cento dei vincitori era costituito da donne. È stata una svolta”.

Perché in una prima fase “alla direzione delle carceri era attribuita un’idea di forza, tipicamente maschile, mentre le donne puntano maggiormente sul dialogo, sulla dialettica, sull’empatia, che a mio parere è il valore aggiunto. Parlare, ascoltare, mettersi a disposizione e mostrare una volontà di andare incontro alle esigenze, permette di contenere le proteste e di riabilitare anche psicologicamente i detenuti e le detenute, che si vedono tenuti in considerazione”.

Un esempio recente arriva dalla gestione della pandemia: “Durante la prima ondata i dati dei decessi a Bergamo erano tragici, il Covid ha colpito anche gli affetti dei detenuti, i colloqui sono stati sospesi, c’era malumore e paura nelle varie sezioni, anche tra il personale. Abbiamo scelto la modalità dialogica, abbiamo dato informazioni, spiegavamo che fuori dal carcere si moriva e abbiamo trovato soluzioni per rasserenare quanto più possibile le persone. Il Comune ci ha fornito dei computer e l’amministrazione penitenziaria ha messo a disposizione dei cellulari: in questo modo i detenuti potevano svolgere i colloqui da remoto, potevano accertarsi circa le condizioni di salute dei propri familiari e questo li tranquillizzava. Le proteste, in una città così colpita dal virus, potevano davvero essere pesanti ed invece sono state contenute“.

Il coronavirus si è portato via una figura fondamentale della struttura di via Gleno, quella di don Fausto Resmini. La sua foto è appesa nella parete dell’ufficio di Teresa Mazzotta, accanto a quella del Presidente Mattarella. “Quando l’hanno ricoverato alle cliniche Gavazzeni ci scambiavamo dei messaggi, lui mi rispondeva sempre, era un punto di riferimento per tutti. Poi si è aggravato e lo hanno portato a Como, da lì non l’ho sentito più. Quando mi hanno comunicato il suo decesso è stato un trauma, per me, per tutti. In quel momento la morte è entrata nel carcere“.

Perché don Fausto era un ponte tra l’interno e il mondo esterno: “Il nostro desiderio più grande è quello di far percepire il penitenziario come parte del territorio, un quartiere nel quartiere della Celandina, le mura devono diventare osmotiche. Avevamo lavorato tanto in questo senso e ora, quando l’emergenza sarà finita, vogliamo recuperare ciò che abbiamo sospeso e attivare nuovi percorsi”.

I detenuti prima andavano nelle scuole della città a raccontare e raccontarsi. Gli alunni venivano in visita nella struttura, assistevano a rappresentazioni teatrali messe in scena proprio dai reclusi. “Io accoglievo gli studenti e li preparavo. Dicevo loro di non immaginare di vedere scene da film, le persone non indossavano tute arancioni o divise a strisce. ‘Incontrerete persone normali, come se fossero le vostre mamme o i vostri papà’, dicevo loro. Una volta, al termine della visita, un ragazzino mi è venuto vicino e mi ha detto: ‘Avevi ragione. Ho parlato con un detenuto e gli ho chiesto perché era dentro. Lui mi ha detto che ha sbagliato, che è entrato in brutti giri, ha avuto problemi di droga e che ha quasi perso i suoi affetti. Mi ha detto di stare attento e di non sbagliare mai, perché rischierei di rimanere solo’. Incontri del genere sono terapeutici per chi sta in carcere e permettono a chi sta fuori di conoscere una realtà spesso considerata a sé, imperscutabile”.

Quando Mazzotta è arrivata a Bergamo il carcere di via Gleno era stato travolto da un’inchiesta giudiziaria che aveva portato all’arresto dell’allora direttore Antonino Porcino, alla guida della struttura per 33 anni, con accuse pesantissime di una mala gestione costellata di truffe, appropriazioni indebite, fino alla violenza sessuale.

“Eh sì, quando sono arrivata c’era un clima di forte turbamento. A livello emotivo l’impatto della vicenda sul personale è stato molto pesante. Bisognava rimotivare, costruire una nuova immagine ed ho trovato tanta collaborazione. Fondamentale per me è il lavoro di squadra, valorizzare le competenze di ognuno, far crescere le persone, tutti devono essere in grado di dare il loro contributo. La risposta è stata subito positiva e, ancora una volta, il terreno di prova è stata la pandemia. Il carcere ha retto grazie al personale, alla sua serietà. La polizia penitenziaria ha sempre garantito la presenza, tutti si sono spesi al massimo ed hanno anche sopperito alle attività trattamentali che erano state sospese. Gli agenti si sono ingegnati per consentire di attivare la didattica a distanza per coloro che frequentano i corsi di alfabetizzazione o la scuola. Il loro impegno è stato davvero lodevole”.

Per festeggiare l’8 marzo è stato organizzato un evento per le detenute, che coinvolge anche la sezione maschile. Ci sarà un concerto della Piccola orchestra Karasciò e letture di testi sul tema del femminile: “Alcuni sono stati scritti dai detenuti, da coloro che compongono la redazione della rivista del carcere e altri sono stati scelti dal personale della biblioteca Tiraboschi, che collabora con noi. Abbiamo scelto di far partecipare anche gli uomini, perché spesso le sofferenze del femminile sono proprio causate da loro e questa è un’occasione di riflessione per tutti”.

 

 

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