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L'intervista

Risse ed eccessi tra i giovani, lo psicologo: “C’erano già prima, la pandemia li ha inaspriti”

Con Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta che presiede la Fondazione Minotauro di Milano, abbiamo provato a indagare le ragioni che sottendono a comportamenti aggressivi: "Un anno fa prevaleva l'aspetto depressivo, ora l'azione. Si trovano in una società che richiede il successo, ma li abbiamo lasciati senza futuro e prospettive".

Risse, atti vandalici, abuso d’alcol, schiamazzi, atteggiamenti sopra le righe: sono diversi i fenomeni denunciati nelle ultime settimane di giovani e giovanissimi che, in tutta la provincia, si lasciano andare a eccessi che arrivano fino alla dimensione del reato.

E non è solo questione di “movida” e spazi estivi, perchè gli episodi più recenti sono avvenuti addirittura nei cortili delle scuole superiori post esame di Maturità, con festeggiamenti decisamente inaccettabili: bottiglie di vetro rotte e lasciate per strada, lancio di oggetti, uova, farina, addirittura una bottiglia di passata di pomodoro versata addosso a una professoressa.

Approfondire e comprendere le singole ragioni di ogni fatto è impossibile, ma con l’aiuto di Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta che presiede la Fondazione Minotauro di Milano, abbiamo provato a scavare più a fondo nel disagio che si nasconde silenzioso dietro a questi comportamenti.

Dottor Lancini, nell’ultimo periodo, da quando sono state ammorbidite le misure di restrizione dovute all’emergenza sanitaria, stiamo notando pressoché quotidianamente situazioni violente che coinvolgono ragazzi giovani: è qualcosa di episodico che riguarda solo la nostra provincia o ha osservato anche lei questo trend?

Avere dati certi sulle dimensioni di un fenomeno così recente è molto difficile, ma è indubbio che in questo momento ci sia grande attenzione su fatti di questo tipo, non solo nella Bergamasca. Noto preoccupazione un po’ ovunque. I numeri, poi, li vedremo, ma ora il tema vero sul quale discutere è la forma espressiva nella quale si materializza il disagio. E ciò avviene sostanzialmente in due modi.

Vale a dire?

Da una parte abbiamo i ragazzi che utilizzano il megafono del proprio corpo e lo esprimono in modo “muto”: da tempo si segnalano l’aumento di disturbi della condotta alimentare, ritiro sociale, autolesionismo, self cutting. Dall’altra c’è chi invece è più rumoroso: tralasciando le risse organizzate e mandate in diretta social, stiamo assistendo a una serie di fenomeni la cui natura e motivazioni sono difficili da intercettare. La sensazione è che chi tende a esternare più il conflitto e il senso di disagio lo faccia attraverso azioni come queste, che vanno comunque valutate, perché non è raro che la ripresa di un telefonino e lo sbarco sui social avvengano comunque. Se indaghiamo un po’ sui luoghi in cui accadono questi fatti, noteremo che sono spesso centrali rispetto alla vita del paese o della città: è la voglia di riconquistarsi uno spazio, anche a livello mass mediatico perché questo è ciò che abbiamo mostrato noi adulti ai ragazzi. Modelli televisivi e di comunicazione che dimostrano che la prima pagina la ottieni con la bagarre e il conflitto.

Dopo il primo lockdown, però, non avevamo osservato una crescita preoccupante di questi fenomeni.

Lo scorso anno ha prevalso l’aspetto più depressivo, mentre va verificato se ora siamo di fronte a un eccesso di festosità o a una modalità distruttiva di esprimere un disagio. Che è rappresentato dall’assenza di percezione del futuro, in una modalità aggressiva di riprendersi uno spazio pubblico. In questo momento sembra che molti più ragazzi vogliano esprimere il disagio in modo più agito con gli altri, con una fisicità violenta, con incontri tra bande. È abbastanza diffuso ovunque, ma dobbiamo capire se ci sono trame di marginalità sociale che concorrono a questa situazione.

matteo lancini
Matteo Lancini

Dal punto di vista psicologico come si possono spiegare questi comportamenti?

I ragazzi hanno vissuto e stanno vivendo un periodo di forte incertezza per il proprio futuro, nel quale hanno percepito l’assenza di uno sguardo attento nei loro confronti che non fosse quello volto a sottolinearne gli stereotipi. Non vedere prospettive e non sentirsi realizzati in una società che richiede sempre il successo porta molti di loro a esagerare nei comportamenti. Colpisce, ripeto, che questi avvenimenti si concentrino sempre più spesso in luoghi centrali, visibili. Ma dobbiamo tornare a interrogarci sulla mancanza di prospettive future.

Questo tipo di situazione, secondo lei, è diretta conseguenza del periodo di pandemia associato ai lockdown?

La pandemia ha esacerbato problematiche che già c’erano, dagli attacchi al proprio corpo all’aggressività. Credo sia molto difficile in questo momento formulare ipotesi scientifiche e credibili riguardo una vicenda che ci coinvolge ancora in questo modo. Credo però di poter dire che l’esagerazione c’è in quanto si sono amplificati i disagi. La pandemia ha fatto scomparire i ragazzi dalle scene, ora loro vogliono riguadagnarsele: chi mettendo a ferro e fuoco la città, chi invece il proprio corpo.

Quindi possiamo “giustificare” questi comportamenti con la necessità di riappropriarsi degli spazi sociali?

In un certo senso, ma l’aspetto che colpisce è che il conflitto che si genera non è oppositivo nei confronti degli adulti ma verso i pari o verso loro stessi. Il tema del corpo è importante, perché è stato sempre più compresso e virtualizzato. Quando ci troviamo di fronte a comportamenti distruttivi siamo in presenza di un disagio: c’è una disperazione generazionale, dentro la quale finiscono purtroppo anche altri microfenomeni di spaccio e delinquenza che si intrecciano a volte anche con organizzazioni di adulti.

In questa situazione cosa può fare la società per aiutarli?

La soluzione non è così semplice, non basta aprire spazi di aggregazione. Serve una politica più incisiva sul mondo giovanile, partendo da una scuola sempre aperta e connessa, come luogo alternativo. Dobbiamo far sentire ai ragazzi che c’è spazio per loro nel futuro, dobbiamo mettere in campo modelli di responsabilizzazione, assegnandogli dei ruoli. Far vedere che sono accolti dalla società e hanno possibilità di realizzare sé stessi. Invece continuiamo a pagare la nostra visione infantile dell’adolescenza, organizziamo la loro vita in base alla visione che noi adulti abbiamo di ciò che dovrebbe essere il loro ruolo e non in base alle loro esigenze. Quando si parla di giovani si parla solamente di ritardi di apprendimento, di accumulo di debiti scolastici: non hanno bisogno di adulti che ci fanno titoli sui giornali, che si rapportano a loro solo sulla base delle loro fragilità, che li interrogano, li limitano e gli danno colpe. Non è questo ciò che si attendono: hanno invece bisogno di relazioni, di sguardi di ritorno che gli aprano delle possibilità, anche solo di esprimere la paura di non farcela.

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