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Storia delle epidemie - 23

Il vaiolo già nelle mummie egizie: a Firenze uccise duemila bambini

In Italia, fra il 1569 e il 1588 gravi epidemie di vaiolo sono ricordate nelle principali città italiane, da Roma a Milano a Napoli a Palermo e in molte altre ancora.

Le origini del vaiolo sono sconosciute e i più antichi rapporti attorno ad esso non sono sempre attendibili. La più antica prova si trova nelle mummie egizie di persone morte circa 3000 anni fa. È quindi ragionevole pensare che il vaiolo venisse trasmesso dall’Egitto per via terrestre o marittima fino all’India, dove rimase come una malattia umana a carattere endemico per circa 2000 anni e forse ancor più.

Nel I secolo d.C. il virus entrò in Cina da Sud-Ovest e diventò stabile nella popolazione. Al medico Ko-Hung, vissuto durante la dinastia Chin (265-313 d.C.), dobbiamo la prima descrizione dettagliata del vaiolo, accompagnata, fra l’altro, da una notizia interessante sull’origine della malattia nel Paese asiatico: essa vi fu introdotta dagli Unni, tribù nomade che giunse anche in Europa durante il V secolo a.C. Le notizie riferite da Ko-Hung sono credibili ed è probabile che il vaiolo sia stato introdotto in Cina dall’esterno, in quanto non esistono notizie della malattia nelle fonti scritte cinesi di epoca pre-Cristiana. Se così stessero le cose, gli Unni potrebbero effettivamente avere svolto un ruolo importante non solo nella penetrazione del vaiolo in Cina ma, più in generale, nella sua diffusione in tutta l’Asia. Nel VI sec. d.C. il vaiolo passò dalla Cina al Giappone.

La scarsa densità di popolazione esistente in Europa fece sì che ci furono solo periodiche comparse nel continente. Il fatto che non diventassero stabili impedì per lungo tempo che il vaiolo si mantenesse in forma endemica solo nelle zone più densamente popolate dell’Asia. Già a partire dal periodo tardo-medievale, però, la crescita demografica che si verificò in Europa fece sì che in molte città il numero di individui esposti alla malattia fosse sufficiente a permettere la trasmissione a catena dell’infezione.

La prima epidemia in Italia

Come la popolazione crebbe, il vaiolo divenne quindi endemico nelle città e nelle aree maggiormente popolate, con periodiche epidemie che provocavano la morte di circa il 30% dei soggetti colpiti. Per l’Italia la prima epidemia di vaiolo della quale si hanno notizie certe e ben documentate avvenne a Firenze nel 1335: “Inferì il vajuolo nell’estate in Firenze e nel contado: nella sola città morirono, tra maschi e femmine, duemila fanciulli”. Non vi sono dubbi, in questo caso, che si trattasse effettivamente di vaiolo: il tipo di eruzione cutanea, l’elevata mortalità e il fatto che la malattia colpì soprattutto i fanciulli, sono dati che depongono in maniera chiara a favore di una eziologia vaiolosa. Da allora in avanti si susseguirono centinaia di epidemie, tutte con le stesse caratteristiche, le quali produssero milioni di morti.

Come già accennato nel capitolo riguardante lo ”Scambio colombiano”, il vaiolo aveva sconvolto anche il nuovo mondo, trasformandosi in un killer spietato che favorirà l’insediamento ed il predominio dei bianchi. La malattia portò ad un vero e proprio olocausto delle popolazioni amerinde, rappresentando un’arma molto più lesiva rispetto alle armi da fuoco. Si stima che in America i precolombiani da 100 milioni si riducessero a 30-40 milioni. Agli inizi del 1600 sia gli Incas che gli Aztechi furono decimati. La prima esplosione di vaiolo si ebbe nel 1507 ad Hispaniola, mentre nel 1515-1517 la malattia imperversò nello Yucatan, colpendo poi nel 1519 gli arcipelaghi del Golfo del Messico. Il grande Montezuma fu colpito dalla malattia proprio quando era sul punto di sopraffare gli spagnoli. Anche in Perù il vaiolo consentì a Pizarro di sopraffare le popolazioni native e di conquistare la capitale degli Incas Cuzco. La malattia e il contagio si diffusero a macchia d’olio nell’America del Sud fino a comprendere il Brasile nel 1560. In tanto disastro, gli unici a prestare soccorso ai malati erano i gesuiti che nelle loro missioni accoglievano gli Indios in cerca di aiuto, convertendo poi la popolazione al cristianesimo. La crisi demografica della popolazione amerinda farà sì che la diffusione del vaiolo, come quella della peste, assumeva proporzioni epidemiche ogni cinque-dieci anni.

La sua penetrazione si accrebbe progressivamente e attorno al XVI secolo il vaiolo fu un’importante causa di morbilità e mortalità in Europa come nel Sud-Est Asiatico, India e Cina. La comparsa della malattia in Europa fu di speciale importanza perché il continente costituì il focolaio da cui il vaiolo si estese alle altre parti del mondo, come una coda delle successive ondate di esploratori e colonizzatori europei.

In Italia, fra il 1569 e il 1588, si hanno almeno 11 anni in cui gravi epidemie di vaiolo sono ricordate nelle principali città italiane, da Roma a Milano a Napoli a Palermo e in molte altre ancora. Quale fosse la causa, sembra innegabile che la seconda metà del Cinquecento abbia visto una larga diffusione di questa forma epidemica, che appare invece attenuata, in Italia, per gran parte del secolo successivo.

I sintomi

Verso il 1660, proprio quando la peste cominciava a scomparire dall’Europa, la minaccia del vaiolo aumentava. Dal XVII secolo, quindi, il vaiolo diventerà endemico ovunque in Europa e probabilmente in tutto il mondo. Era forse la malattia umana più contagiosa, sotto certi aspetti più detestabile e temibile dell’altra mietitrice di vite umane, la peste. Mentre la peste decideva tra la vita e la morte in tre o quattro giorni, il vaiolo durava due settimane o più. I suoi primi sintomi erano febbre, mal di testa, vomito. In seguito cessava la febbre e comparivano molte piccole rilevatezze cutanee delle dimensioni di un pallino da caccia soprattutto sul viso, sulle braccia e sul torace. Dopo parecchi giorni le papule si ingrandivano e contemporaneamente si riempivano di liquido. Quindi tornava la febbre e le vescicole divenivano pustole molto rilevate e dotate di alone infiammatori, le pustole si rompevano e si ricoprivano di croste giallastre, mollicce e maleodoranti. Infine se il paziente sopravviveva (e in molte epidemie due casi su cinque erano letali), le croste si staccavano lasciando le caratteristiche cicatrici depresse (pox) che diedero il nome inglese alla malattia (smallpox). Non era infrequente che alcuni pazienti divenissero ciechi in seguito al vaiolo.

Come visto riguardo ai secoli precedenti, è in ogni caso la densità crescente della popolazione che spiega l’enorme diffusione del vaiolo nei paesi europei nei secoli dell’epoca moderna. Nelle città più affollate, dove la malattia si manteneva generalmente allo stato endemico, anche nel corso dei secoli XVI-XVIII gran parte della popolazione contraeva prima o poi (e più spesso già in tenera età) la malattia, che esplodeva in epidemie generalizzate a intervalli di 5-10 anni di distanza l’una dall’altra.

I bambini

Sebbene quindi prediligesse i bambini di età inferiore ai cinque anni, il vaiolo poteva diffondersi per contagio tra i soggetti di qualsiasi età e classe sociale. Meno del 20 per cento della popolazione sfuggiva completamente al contagio anche perché il virus era più virulento nelle città che nelle campagne. Nel Settecento, ancora una volta, il vaiolo fu favorito dall’accresciuta densità delle città e dagli agglomerati urbani troppo affollati. Nel XVII secolo esso rappresentava a Londra la causa del 10 per cento di tutti i decessi, e in altre città europee tale percentuale era ancora più elevata.

Tanto per citare alcuni dati significativi della mortalità provocata dal vaiolo nel solo continente europeo nel corso del XVIII secolo, prima che le misure di profilassi fossero attuate con il metodo della variolazione, a Parigi nel 1753 ne morirono 20.000 persone, a Napoli nel 1768 in poche settimane morirono 60.000 persone, a Berlino, nel 1766, più di mille e ad Amsterdam, nel 1784, 2.000. Nel 1707 una nave infetta di vaiolo, approdata in Islanda, provocò in breve 20.000 morti. La Groenlandia nel 1733 perse i tre quarti della popolazione a causa del virus. Nel continente europeo il vaiolo ebbe quindi esplosioni particolarmente violente e devastanti, provocando nel corso dell’intero secolo milioni di vittime.

Nel frattempo, la classe colta si accorse di un fatto già noto alla gente comune: questo terribile flagello era evitabile. Il vaiolo fu infatti la prima malattia importante suscettibile di una forma di profilassi; non c’erano possibilità di cura, ma si poteva almeno prevenirla. Ai giorni nostri la prevenzione del vaiolo è di solito associata al nome di Edoardo Jenner, noto per aver scoperto il vaccino contro la malattia nel 1798.

Effettivamente, però, già molto tempo prima di Jenner, parecchie popolazioni del vecchio mondo si servivano di metodi diversi per contrarrei il vaiolo in forma non grave. Preoccupati per la salute dei loro figli, i genitori cercavano qualcuno affetto da una forma lieve di vaiolo e attraverso del materiale prelevato da lesioni vaiolose o dalle croste di questi lo inoculavano a essi. Dopo un periodo d’incubazione di una settimana circa il bambino, se fosse stato fortunato, sarebbe sviluppato una lieve forma di vaiolo da cui guariva senza riportare esiti cicatriziali, pur contraendo un’immunità permanente nei confronti della malattia; le forme lievi fornivano infatti la stessa protezione di quelle gravi. La popolazione educata a questo tipo di prevenzione, frutto della medicina popolare, cominciò a chiamarla inoculazione dal latino inoculare, trapiantare. Venne anche chiamata vaiolizzazione, infatti vaiolo dal latino varus, pustola, era il nome dotto della malattia.

Pratiche popolari anti vaiolo

Esistevano numerose tecniche di vaiolizzazione. I cinesi evitavano il contatto diretto col malato, mentre al bambino veniva fatta inalare una polvere ottenuta dalle croste di un soggetto in via di guarigione. Nel Vicino Oriente e in Africa si faceva penetrare con una leggera frizione materiale fresco ottenuto dalle pustole dei soggetti affetti dal vaiolo in una ferita o in una abrasione della cute del soggetto da immunizzare.

Il primo resoconto dotto di queste pratiche popolari di immunizzazione fu opera di Thomas Bartholin, anatomo patologo dell’Università di Copenaghen e in seguito medico di Cristiano V, re di Danimarca e Norvegia. Un suo articolo sulla vaiolizzazione nelle campagne danesi fu pubblicato nel 1675, epoca in cui tale pratica era nota anche nelle campagne francesi e gallesi. In Inghilterra queste pratiche popolari furono conosciute solo 40 anni più tardi quando Emanuel Timoni, un medico greco educato a Oxford e vissuto a Costantinopoli, inviò nel 1713 una descrizione del metodo della vaiolizzazione usato nel Vicino Oriente ai suoi colleghi membri della Royal Society di Londra. Il suo articolo fu riassunto nei “Philosophical Transactions” pubblicati dalla Royal Society nel 1714. Due anni più tardi la stessa pubblicazione ospitava un’analisi più dettagliata delle pratiche preventive orientali scritta da un medico italiano Giacomo Pylarini, che fu inviato a Smirne come console. La vaiolizzazione veniva praticata a Smirne secondo i canoni stabiliti nel Vicino Oriente; persone professionalmente addette alla vaccinazione, di solito donne, estraevano il pus dalle pustole mature e lo facevano penetrare in un’abrasione o in una incisione fatta sul braccio sulla gamba della persona da inoculare.

Ma il frutto di tutte queste pratiche e osservazioni sarebbe andato perduto se non fosse stato per l’interessamento e l’opera della nobildonna inglese Mary Wortley Montagu, figlia del Duca di Kensington e moglie dell’ambasciatore britannico fondatore del British Museum, al suo ritorno a Londra da Costantinopoli. In una lettera del 17 aprile 1717 così scriveva ad una amica londinese: …Il vaiolo, tanto generale e tanto micidiale fra noi, è qui interamente innocuo per l’invenzione dell’innesto… Un certo numero di vecchie, fanno questo mestiere ogni autunno, nel mese di settembre”.

La pratica della variolazione fu quindi da lei divulgata per la prima volta in Europa, nella fattispecie in Inghilterra, dopo avere osservato la pratica in Turchia e aver fatto inoculare il figlio di cinque anni nel 1718. Al rientro a Londra ella promosse la pratica della variolizzazione con entusiasmo, ma incontrò molta resistenza da parte della classe medica perché la pratica apparteneva alla tradizione popolare di un paese orientale. Nell’aprile 1721, cercò di persuadere il Collegio dei medici di Londra ad eseguire una prova che avesse un certo valore dimostrativo: quando un’epidemia di vaiolo colpì l’Inghilterra fece inoculare la figlia, ispirando la fiducia della famiglia reale inglese che a sua volta si sottopose alla variolizzazione.

Nel 1722 il dottor Richard Mad, medico del re, inoculava sette condannati a morte del carcere di Newgate i quali, dopo una lieve forma di vaiolo, guarirono. Nello stesso periodo a Boston, scoppiata l’epidemia, Mother e Boylston vaccinarono 242 persone, riscontrando una mortalità del 2,5% negli inoculati contro il 15% di quelli che avevano contratto il vaiolo naturalmente. In Italia, convinto inoculatore, alieno da polemiche dottrinali, fu Angelo Gatti, che venne chiamato nel 1778 alla corte di Napoli per inoculare i membri della Real Casa.

Il vaiolo imperversò ancora in Europa nel XIX secolo con numerose epidemie (1824-1829; 1837-1840;1870-1874) e vi fu eradicato solo nel 1953. Nel Nord America gli ultimi casi di vaiolo si videro negli anni Quaranta del secolo scorso. Nel 1969 si contavano ancora 5000 casi di vaiolo in Brasile, ma nel 1971 il morbo fu considerato scomparso in tutta l’America Latina. Nel 1974 si ebbero 170.000 casi in India, ma l’ultimo caso si ebbe nel 1975. Tuttavia nel 1979, dopo l’ultimo caso segnalato in Somalia nel 1977, il vaiolo poté essere considerato scomparso dal pianeta e questo in virtù di una universale campagna di vaccinazione dell’OMS.

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