• Abbonati
Storia delle epidemie - 20

Nel ‘700 si chiude il lungo periodo delle pestilenze con quella, feroce, di Marsiglia

Nella città francese le drastiche misure di polizia, il capillare contenimento e il preciso disciplinamento della popolazione determineranno il successo nel circoscrivere il contagio.

Nel 1679 Vienna fu colpita da una delle ultime grandi epidemie di peste in Europa. Si stima che quasi 80mila viennesi siano morti, vittime della peste bubbonica, che dilagava tra orde di ratti e cumuli di rifiuti puzzolenti. Come molte altri centri economici dell’epoca, la capitale del Sacro Romano Impero era sovraffollata e non disponeva di fognature decenti. Non c’è da stupirsi che l’imperatore Leopoldo volesse scapparne. Ma prima di fuggire dai palazzi più signorili degli Asburgo, promise di erigere un monumento alla misericordia di Dio se solo la peste se ne fosse andata e gli avesse concesso di tornare nella sua capitale. Fu così completata, in quindici anni, una delle più belle opere del barocco viennese: la Colonna della peste, eretta sul Graben, nel cuore della città.

La peste passò dopo circa un anno dal suo inizio, ma fu presto seguita dall’assedio degli Ottomani del 1683, detto anche Battaglia di Vienna. La colonna è quindi un intricato racconto iconografico che informa gli spettatori che sia la peste che l’assalto dei Turchi erano una punizione di Dio, scongiurata solo grazie alla virtù e alla vigilanza dell’imperatore Leopoldo.

Leopoldo non si occuperà solo di problemi di carattere strettamente militare, ma in senso più ampio quelli della realizzazione di un ‘buon ordine’ generale, che considera gli uni con gli altri inscindibili i problemi di un rilancio economico-commerciale dei territori di confine, di riorganizzazione amministrativa e di misure da applicare per porre possibili argini alla diffusione, da oriente, del male sommo della peste fino all’interno dei territori dell’Impero asburgico e dell’Europa.

Il generale bolognese Luigi Ferdinando Marsili, plenipotenziario di Leopoldo I per la realizzazione dei confini stabiliti nella pace di Karlowitz, sottolinea in un “Progetto pel buon regolamento a difendere dal pericolo di peste tutta la frontiera” (1701), che la peste è “il fulmine più fiero” che sempre è in agguato fra gli uomini. L’esperienza, recente e passata, dei suoi “orridi effetti”, deve di conseguenza indurre il Sovrano ad applicare preventivamente un sistema generale di tutti quegli “ordini e disposizioni che per diligenza umana si possano fare”, per difendere i suoi Stati e la salute dei sudditi (e i loro interessi) e sia comunque utile a porre ogni possibile argine alla eventuale distruttiva diffusione dell’epidemia.

Al di là delle misure concretamente prospettate dallo stesso Marsili in tal senso e in forza, per esempio, della critica ai “tribunali di sanità”, vigenti nell’Impero turco e che, a suo avviso, non sono attendibili, fino alle varie “prescrizioni delle leggi di salute” ovviamente legate alla situazione delle conoscenze scientifiche del tempo, vale la pena porre in evidenza il forte richiamo che egli, in premessa, rivolge all’Imperatore e agli alti vertici della politica viennese. Si tratta di costruire un “irrevocabile regolamento” da effettuare, in primo luogo, anche con “l’aiuto della imitazione degli altri” e nella fattispecie di quei paesi che più si mostrano all’avanguardia in tale prospettiva (le “leggi esatte della repubblica di Venezia” vengono esplicitamente richiamate).

C’è sullo sfondo l’idea che la battaglia contro le epidemie debba essere svolta ad ampio raggio da parte di tutti gli Stati? Marsili è un militare e, come tale, è chiamato a rispondere specificamente al suo Sovrano e sarebbe davvero troppo chiedere a lui di addentrarsi in considerazioni più ampie rispetto a quelle che i suoi diretti interlocutori politici gli chiedono di fare. Certo è, che egli ha chiara l’idea che la peste è qualcosa che va ben al di là dei confini degli Stati e che si tratti in ogni caso, anche sotto il profilo meramente interno agli Stati stessi, di far tesoro e confrontare, oltre che le proprie passate esperienze e ben prima che l’emergenza epidemica si manifesti, le misure più innovative e di successo che altri paesi hanno attuato.

Dopo quella scoppiata a Vienna, e di lì a Praga ed infine nel 1690 quando si manifestò in Puglia, con il Seicento finiscono le grandi pestilenze, eccetto una coda nel Settecento. L’episodio finale colpì Marsiglia nel 1720 e fu una delle epidemie più feroci della storia. Quindi, ciò che era iniziato in Europa in maniera inaspettata e violenta negli anni Quaranta del Trecento, finì in modo analogo negli anni Venti del ‘700.

È dunque qui, nel sud della Francia, che per l’ultima volta nella storia dell’Europa moderna, che la peste esige, in modo devastante, il suo oneroso tributo di sangue. Siamo nella Francia dell’assolutismo e la macchina amministrativa del regno è considerata il modello di efficienza e operatività a cui tutti gli altri Paesi guardano con ammirazione. Il caso della peste marsigliese diventa immediatamente un banco di prova dell’efficacia degli strumenti d’intervento statale. Ed è una prova superata sul piano generale, perché, per quanto terribile, l’epidemia non si espande molto oltre l’area della Provenza. Le misure d’eccezione che gli uffici di sanità pubblica marsigliesi mettono in atto, segneranno un’epocale trasformazione dello spazio urbano della città e dell’articolazione dei suoi poteri. L’instaurarsi di una speciale “polizia di peste”, che non risponde al consiglio comunale, al posto delle normali guardie urbane e di un duplice comando militare municipale al posto delle tradizionali magistrature cittadine, sono i tratti più evidenti delle misure emergenziali che vengono adottate.

La ricostruzione storica dell’epidemia ci offre addirittura una data precisa a indicare l’ingresso della morte nera in città: è il 25 maggio, quando una nave mercantile, il vascello Le Grand Saint-Antoine, proveniente da Seyde, in quello che allora era detto Levante (oggi diremmo in Siria), entra nel porto con un prezioso carico di tessuti del valore di 100.000 luigi d’argento. Per le Grand Saint-Antoine l’ultimo scalo prima di arrivare a destinazione era stato il porto di Livorno, lo stesso che settant’anni prima era stato protagonista dei tentativi di cooperazione sanitaria internazionale. I commissari di sanità livornesi avevano segnalato sui libretti di viaggio del vascello francese che a bordo vi erano sospetti di un contagio in corso. Se a Marsiglia si fosse tenuto scrupolosamente conto di quanto segnalato dai commissari toscani si sarebbero dovute applicare rigide procedure, tra cui la distruzione dell’intero carico.

È di un altro avviso Jean-Baptiste Estelle, primo magistrato cittadino e proprietario, insieme ad altri mercanti della città, del trasporto di tessuti pregiati provenienti dal Levante. Sulla base delle pressioni di Estelle e degli altri magistrati cittadini, tutti solidamente legati alla borghesia mercantile della città, l’intendenza di sanità marsigliese derubrica gli ammalati a bordo a semplici affetti da “febbri maligne dovute a condizioni igieniche scadenti”. Insomma, con leggerezza afferma che non si tratta di peste: e così il carico prezioso è salvo. Il prezzo di quella leggerezza lo pagherà tutto la popolazione della città di Marsiglia.

L’epidemia è terribile tanto per la città, dove dei 75.000 abitanti ne moriranno 40.000, quanto per buona parte della Provenza, dove il contagio produrrà altri 50.000 decessi. Le rilevazioni del commissariato di sanità impressionano per il picco iniziale di mortalità: tra la fine di giugno e l’inizio di luglio del 1720 vi sono alcune punte di mille morti al giorno. Il dato che conta, però, nell’ottica dello stato francese, è che da Marsiglia la peste non si diffonderà molto oltre l’area rurale circostante. Le drastiche misure di polizia, il capillare contenimento e il preciso disciplinamento della popolazione determineranno il successo nel circoscrivere il contagio.

Le pratiche di prevenzione e di contenimento del contagio epidemico cominciano quindi a funzionare, perché vanno di pari passo con lo strutturarsi di quel temibile Leviatano (simbolo dell’onnipotenza dello Stato nei confronti dell’individuo) che è lo Stato moderno.

Questa chiave di lettura, piuttosto condivisa tra gli storici, riporta tuttavia alla ribalta altri spunti interpretativi, quelli che, da Foucault in avanti, vedono nello “stato d’eccezione” con cui si fronteggiano le emergenze improvvise il mezzo attraverso cui viene aggiornata costantemente la grammatica della “normalità”. “La peste è la prova nel corso della quale si può definire idealmente l’esercizio del potere disciplinare. Per far funzionare secondo la teoria pura i diritti e le leggi, i giuristi si ponevano immaginariamente allo stato di natura; per veder funzionare le discipline perfette, i governanti postulavano lo stato di peste”.

Provando a ridurre ai minimi termini un discorso che sarebbe altrimenti molto complesso, questa è la tesi secondo cui eccezionalità e normalità si inseguono e si ridefiniscono continuamente nell’età moderna, accompagnandosi alla ristrutturazione e riformulazione della società stessa in cui i fenomeni si manifestano. Per questo si potrebbe dire, assecondando la prospettiva foucaultiana, che alla fine dell’età moderna, dopo quasi quattro secoli di affinamento delle pratiche di contrasto alle epidemie, la società europea si mostra totalmente ristrutturata. Essa è stata totalmente rifondata sul paradigma teorico del disciplinamento totale, in cui ciascuno deve stare al posto assegnatogli. E qui si aprirebbe un lungo dibattito sul come gli Stati stiano combattendo l’attuale pandemia…

Giustapponendo il quadro meramente descrittivo, ossia come hanno funzionato la repressione e il contenimento della peste lungo i secoli, a quello interpretativo, cioè cosa ha comportato questo processo, si sarebbe portati a dire che il disciplinamento sociale è stato il salato prezzo da pagare per condurre in porto la lotta serrata alle epidemie di peste (ma il discorso potrebbe valere, con le distinzioni del caso, anche per le altre devastanti malattie come il tifo, il colera o il vaiolo). Insomma, sarebbe un’ennesima variante del “disagio della civiltà”, in base a cui la repressione è il prezzo da pagare per poter vivere insieme.

È un tema interessante, per quanto complesso, che è però complementare a questa narrazione. Se però ci abbassiamo a più semplici interpretazioni, eludendo approfondimenti e teorie interpretative più ardue, possiamo individuare comunque spunti di riflessione notevoli scrutando come alcuni episodi nella storia delle epidemie, di cui è emblematico quest’ultimo, siano purtroppo d’attualità.

Iscriviti al nostro canale Whatsapp e rimani aggiornato.
Vuoi leggere BergamoNews senza pubblicità?   Abbonati!
Più informazioni
leggi anche
difterite (da Wikipedia)
Storia delle epidemie - 19
L’incubo difterite, che uccise anche il nipotino di Napoleone
peste di londra ("Lord, have mercy on London", 1665, xilografia)
Storia delle epidemie - 18
La peste di Londra: centomila vittime su mezzo milione di abitanti
peste napoli
Storia delle epidemie - 17
La peste del 1656 a Roma e a Napoli: parlarne era rischioso come ammalarsi
commenta

NEWSLETTER

Notizie e approfondimenti quotidiani sulla tua città.

ISCRIVITI