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Un anno dopo

Lisa, la ragazza dei cimiteri: quei riti funebri assurdi e strazianti durante la pandemia fotogallery

Lisa Martignetti, 39 anni, è una necrofora. Il caso più difficile? "Una signora che ha perso prima il papà, poi la mamma e quindi il marito. Non avevo più parole per lei"

Lisa Martignetti, 39 anni, è una necrofora: organizza commiati e funerali con la stessa passione con cui altri celebrano matrimoni e ricorrenze. E nell’ultimo anno, a Bergamo, questo mestiere, a cui Lisa dedica energie, sensibilità e delicatezza, ha assunto un ruolo se possibile ancor più profondo e intimo che abbiamo voluto ripercorrere insieme.

Cosa ha significato essere operatrice funebre durante la pandemia da Covid?

È stata un’esperienza straziante. Il telefono squillava ininterrottamente. Dopo il medico che comunicava il decesso, spesso io ero la prima voce che accoglieva l’annuncio della famiglia. Nonostante le chiamate in attesa, continue, ho sempre cercato di ascoltare, senza fretta. Il caso più difficile è stato quello di una signora che ha perso prima il papà, poi la mamma e quindi il marito. Non avevo più parole per lei.

Per tutti voi operatori?

Sì, anche i colleghi sul campo erano stremati; i primi tempi non avevamo nemmeno adeguate protezioni. Ma non ci siamo mai tirati indietro. E ci abbiamo messo, tutti, anche tanto cuore. Durante il covid19 siamo stati i portavoce del dolore delle famiglie.

E dopo la fase dell’emergenza?

Ho organizzato delle belle cerimonie funebri. Belle perché desiderate, volute, pensate con cura. Si respirava l’attesa che giungeva a compimento. È stato molto importante tornare a funerare i nostri morti. Molti hanno fatto i conti con la morte solo lì, davanti alla bara del proprio caro. Mi è capitato anche di organizzare banchetti funebri – all’aperto e nel pieno rispetto delle norme di sicurezza –. Attenzione a non banalizzare su questo: il banchetto funebre è un’antichissima tradizione, ancora presente in alcune culture, prevalentemente non occidentali. La convivialità davanti al cibo ha un importante ruolo di comunione, condivisione, memoria. Pensiamo anche alla tradizione tipica del sud Italia di portare del cibo a casa della famiglia del defunto da parte dei vicini di casa. Questo è un bellissimo gesto di cura, di vicinanza. Il cibo ha un alto valore simbolico.

Lisa Martignetti ha condiviso e raccolto il testimone dal papà, anche lui operatore funebre, da cui ha imparato la dedizione per la cura dei defunti, delle famiglie e delle ferite della morte. La vita ha voluto che il suo primo funerale sia stato proprio quello di suo padre. Un rito preparato insieme, in vita. L’amore nato da quel momento così intimo e significativo, Lisa, lo ritrova tutte le volte che è chiamata ad accudire una salma. La morte per lei fa parte della vita, e della vita è uno dei passaggi più intensi. Nella morte ci si deve fermare; della morte si deve prendere piena coscienza, non la si deve dimenticare. Il cimitero, altra grande passione di Lisa, che fotografa con uno sguardo pieno di dolcezza è per lei un “regno di vita”.

Una vocazione, la sua: “Sento il desiderio profondo di stare accanto alle famiglie che perdono una persona cara, di accompagnarle nei giorni più difficili. Mi prendo cura di questo passaggio. Lavare e vestire le salme, curarsi del loro aspetto, rendere accogliente il luogo del commiato e suggerire per il rito funebre quei gesti profondi capaci di unire, il più possibile, parenti e amici. Che devono piangere. Questo è il compito di chi resta per celebrare e affrontare il lutto: piangere”.

Di lacrime in questo anno terribile ne sono state versate tante, tantissime. Per la prima volta in solitudine, tutti lontano da tutti. Soli i nonni, le mogli separate dai mariti, i figli senza i genitori. Un vuoto enorme, un buco nero in cui annegare nella paura e nell’angoscia della separazione, della sofferenza e della morte. Un dolore non condiviso, senza carezze e abbracci. Senza sguardi, senza parole che curano. Solo silenzio, meccanici ronzii.

Per proteggere la vita abbiamo sterilizzato anche la morte. I nostri morti non sono stati vestiti, vegliati, incensati. Nemmeno il funerale ci ha concesso, questo virus disumano. Non abbiamo potuto vivere e celebrare un fondamentale rito di passaggio. Ma spogliata dei riti, la vita è insostenibile. Perché solo nell’ordine dei simboli essa realizza il suo carattere umano.

Ora, è il tempo della rielaborazione.

Cos’è per lei il funerale?

È il rito necessario all’elaborazione del lutto. L’assenza del rito durante la pandemia ha permesso di riscoprirne l’importanza, non solo privata ma collettiva, sociale. Il funerale era dato per scontato, spesso derubricato ad incombenza. Abbiamo capito che non è così, ne abbiamo sentito la profonda mancanza. Io dico che anche la morte ha cercato di combattere contro il covid19: questi decessi senza il virus sarebbero avvenuti diversamente, in altro tempo, in altri modi. Sono gli incidenti della vita che ci conducono alla morte. La morte ci aspetta, ci sta accanto. Io voglio prendermene cura. Pensare, in vita, al proprio funerale è un gesto d’amore verso sé stessi e gli altri. Basta un foglio di carta per esprimere le proprie volontà, per dare uno stile profondamente umano al proprio funerale: scegliendo le parole, i gesti, i simboli.

Il primo funerale per lei è stato quello del papà.

Mio papà è mancato il 22 agosto 2019. Un mese prima abbiamo iniziato a pensare, insieme, agli ultimi gesti. Aveva scelto l’abito, che mi ha mostrato, poi la cassa, l’imbottitura, i canti, i dettagli. La morte è arrivata liberandolo dalla sofferenza della malattia. Mi sono detta: “Papà, dammi la forza di fare tutto come te”. L’ho lavato, vestito, accudito. Finché era caldo ho tenuto le sue mani sul mio viso. C’era il dolore e anche il sorriso, i ricordi, l’amore. Non ho voluto assistere alla chiusura della bara. Al termine del funerale ho fatto volare in cielo dei palloncini bianchi come gesto di libertà, l’inizio del viaggio dell’anima.

Cosa vuol dire prendersi cura della morte?

Esserci, con discrezione ma anche empatia, e profondo rispetto. Quando sono chiamata dalla famiglia, mi occupo del lavaggio delle salme, che per me è anche sempre un massaggio, un ultimo gesto di congedo dal corpo mortale. Poi, la vestizione. Infine, c’è la collocazione e la chiusura della bara. Io resto accanto a chi lo desidera. Non lascio la famiglia in sospeso: mi presento tutti i giorni della veglia, per offrire un supporto. Poi arriva il giorno del funerale. Nei giorni seguenti porto in dono una piccola pianta verde: è un invito ad alimentare il ricordo. Anche questo gesto ha un significato simbolico. È un momento molto emozionante.

Chi la chiama di solito?

Molti vogliono essere protagonisti e decidere come congedarsi da questo mondo quando si trovano in piena salute. In alcuni c’è anche ironia, sfidano questo momento. C’è chi sceglie il vestito, la musica, i fiori. Alcuni, invece, sono malati terminali che vogliono condividere la scelta degli ultimi gesti; e poi la famiglia colpita dal lutto.

Lei è conosciuta su Instagram come “La ragazza dei cimiteri”, perché?

Per la mia passione di fotografare i cimiteri. Chi guardava le mie foto ha iniziato a chiamarmi così, mi ci sono riconosciuta e ho usato questo nome per i miei profili social (oltre 7,5 mila follower su Instagram ndr). Quando sono entrata in un cimitero per la prima volta avevo quattro anni, ero con mia nonna e ne sono rimasta profondamente affascinata. La nonna racconta che il mio primo gesto fu di cura: raccoglievo i vasi caduti che rimettevo al loro posto. Non dovevano stare per terra. Poi, osservavo i monumenti funebri e restavo a bocca aperta. Il cimitero è un regno dove c’è tutto il ciclo vitale dalla vita – le persone in visita, piante, fiori, piccoli animali – alla morte, con il suo silenzio e le emozioni che essa porta con sé. Prima della pandemia, nel 2019, ho avuto l’opportunità di allestire una mostra fotografica al famedio del Monumentale di Bergamo: quando ho ricevuto l’autorizzazione ho pianto dalla gioia.

Qualcuno le dà della blasfema, della profanatrice di tombe.

Per fortuna in pochi, ma ci sono; chiunque si espone deve mettere in conto di ricevere anche accuse cattive, spesso odiose. Rispetto la vita e la morte, sempre. Non ritraggo mai nomi e cognomi né altero in alcun modo le tombe, che non sono un set fotografico ma monumenti carichi di significati da cogliere e celebrare.

Lei è credente?

Sono spirituale. Io credo che esista un’energia che ascolta ed accoglie i nostri pensieri. Coltivo la mia dimensione spirituale, che è un modo per avviarmi al mistero.

Com’è essere donna in questo campo?

Quello delle imprese funebri è un mondo di imprese familiari. Le donne che vi operano sono spesso legate ad una famiglia d’impresa. In questo lavoro gli uomini sono preferiti per la prestanza fisica; il necroforo è chiamato anche ad alzare grossi pesi, una bara può pesare da 80 ad oltre 200 kg. Questo penalizza noi donne. Lo trovo però un approccio limitante e, pure, avvilente. Io, donna, fonte di vita, perché devo essere messa nell’angolo di fronte alla morte? Anche le mamme sono penalizzate perché si ritengono non disponibili 7 giorni su 7 e 24 ore su 24. Ma dico: fatelo decidere a me! Ho investito tempo e denaro per formarmi perché voglio avere un ruolo in questo settore, di cura. Io voglio prendermi cura delle salme, stare accanto alle famiglie, non in ufficio. Ho quindi deciso di iniziare a raccontare questo lavoro e lo stile con cui l’affronto

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