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Un anno dopo

Il dovere di raccontare lo strazio di quei giorni senza cedere alla disperazione

Da quella domenica 23 febbraio 2020 non c'è stato un momento di tregua: doveroso informare sul susseguirsi degli eventi. Non ci ha protetto, stavolta, la corazza cinica del giornalista

Come dimenticare quel giorno, il 23 febbraio 2020?

Come cancellare quel momento in cui, in una domenica che offriva le “normali” opportunità di viverla: in famiglia, al cinema, a teatro, al bar, al ristorante… si è spalancata la porta dell’angoscia? Di più, si sono ribaltate le certezze, e quello che era scontato fino al giorno prima ha assunto nuovo peso, nuovo valore?

Primo pomeriggio, veniamo a sapere che l’ospedale di Alzano ha chiuso i battenti. Esattamente due giorni dopo la notizia del focolaio di Codogno.

Subito al computer. Allarmati, ma dapprincipio non ancora consapevoli di quello che sarebbe scoppiato, proprio qui, nel giro di qualche settimana.

La redazione tutta immediatamente al lavoro: telefonate, un giro davanti al Pesenti Fenaroli, ricerca di contatti con medici, infermieri, residenti, sindaci. Per saperne di più.

Ma soprattutto domande domande domande… In quelle ore soltanto la certezza del divieto di entrare e poi della riapertura dopo un po’. Inspiegabile.

Intanto il dubbio si insinua nei cronisti, un dubbio purtroppo confermato solo poco dopo: accertati due casi positivi di Covid-19, almeno uno di loro passato dal pronto soccorso, piccola area affollata.

Affollata.

Aggettivo privo di connotati negativi fino a quel giorno. O meglio, voleva dire a volte attese e nervosismi, nulla di più. Invece, da quella domenica maledetta, la gente, tanta gente insieme e vicina diventa sinonimo di rischio, di timore, di pericolo di contagio. Contagio da Coronavirus, polmoni che collassano, intubazioni e spesso, troppo spesso, vite che si spengono.

Da quella domenica non c’è più un momento di riposo, di tregua. Doveroso informare, implacabilmente, sul susseguirsi degli eventi: le mascherine che mancano, gli ospedali saturi di pazienti, l’ossigeno che scarseggia, le persone che muoiono dentro casa e nelle terapie intensive.

E poi: i forni crematori che nemmeno riescono ad adeguarsi al numero delle vittime, l’esercito chiamato a portar via i feretri.

Ancora: la solitudine di chi muore isolato in ospedale. Lo strazio dei parenti. La richiesta pressante di capire perché, di vedere se tutto questo poteva essere evitato. L’avvio delle inchieste.

Giorno per giorno, momento per momento: pagine intrise di dolore. Non ci protegge stavolta la corazza cinica del giornalista. Ogni storia è una fitta al cuore, contrappuntata da quel lugubre e inarrestabile urlo di sirene: il dovere di descriverla un compito ingrato.

Il desiderio è trovare qualcosa di positivo a cui aggrapparsi, uno spiraglio di bellezza da raccontare.

C’è: i medici e gli infermieri instancabili eroi o il tentativo di vedere un domani migliore con le canzoni dai balconi e gli slogan di speranza. O la solidarietà che arriva a vagonate…

C’è. Pian piano il bollettino crudele delle vittime sforna numeri meno clamorosi, pian piano gli ospedali di Bergamo si svuotano, pian piano la descrizione delle guarigioni prende il posto del racconto delle vite che si spengono.

No, non ne siamo fuori, altri lutti si susseguono mentre le cicatrici pulseranno rosse per tanto tempo. Ma un anno dopo quella indimenticabile domenica 23 febbraio 2020 la cronaca vede al centro una parola che fa sperare: vaccini. Più di una promessa, una campagna che è partita, in sordina, però è iniziata, finalmente. Ma spicciamoci.

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