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Vento e neve: come la letteratura diventa un riflesso

Come tutti gli scritti di Carducci ha un grande bisogno di verità, di dipingere a pennellate decise il ritratto di un’Italia che non esiste più.

Il vento come un mostro ebbro, mugliare

udii, notturno. Errava non veduto

tra i monti, e poi s’urtava al casolare

piccolo, ed in un lungo ululo acuto

fuggiva ai boschi, e poi tornava ancora

più ebbro, con suoi gridi aspri di muto.

L’udii tutta la notte ed all’aurora

non più. Dormii. Sognai su la mattina

che la pace scendeva a chi lavora.

Or vedo: scende: era divina

l’anima. Il cielo tutto a terra cade

col bianco polverio d’una rovina.

Non un’orma. Vani te anche le strade,

la terra è tutta un solo mare a onde

bianche, di porche ov’erano le biade.

Resta il mio casolare unico, donde

esploro invano. Non c’è più nessuno.

E solo a me che chiamo, ecco risponde.

il pigolio d’un passero digiuno.

Quando i nostri genitori erano bambini era normale andare in Fara con lo slittino e sentire quel freddo che solo la neve sa creare stuzzicando la pelle del viso e spaccare le labbra che ha precedentemente tinto di un rosso vermiglio.

Quando il 28 dicembre Bergamo si è svegliata sotto la seconda coltre bianca di questo folle inverno del 2020, non sono stati pochi quelli che hanno pensato di andare con gli scii in centro o in Città Alta.

La pagina AverangeBerghem ha fedelmente riportato tutte le segnalazioni dei propri followers e tra di esse si sono viste le sciate più particolari tra chi faceva scii di fondo tra le vie di Bottanuco e chi, invece, ha usato via Pignolo come pista di discesa per lo snowboard.

Quello che adesso è un atto di ribellione motivato dalla nostalgia di chi passa questo periodo a Foppolo o a Ponte di Legno, qualche anno fa era la normalità, come era anche normale che a dicembre la neve si adagiasse sulle strade. Oggi non è più la novità, ma un evento raro che continua a incollare i bimbi – e non solo – alle finestre; con il naso spiaccicato al vetro sono spettatori di questa danza leggera e magica. Tanto a loro cosa importa delle strade sporche e della difficoltà che si ha a spostarsi quando nevica. Gli amanti dell’inverno sono fatti in questo modo, incuranti degli effetti collaterali della neve, ma detto tra noi, è giusto così. È giusto perdersi in queste piccole cose che fanno sempre bene al cuore ed è giusto riscoprirsi un po’ bambini ogni tanto.

Gianni Rodari, poeta, scrittore dall’animo fanciullesco ha dedicato un’infinità di poesie alla pioggia bianca.

La poesia di cui vi parlo oggi, però, non è sua, ma di Giosuè Carducci che, forse, ricorderete per la più nota “San Martino”.

Nel corso dell’Ottocento, Carducci non abbraccia il romanticismo, ma si adagia su un classicismo vitale, diverso da quello di Foscolo o Leopardi. Il classicismo del poeta è vitale, reale e lontano da latinismi. Questa poesia, come tutti gli scritti di Carducci ha un grande bisogno di verità, di dipingere a pennellate decise il ritratto di un’Italia che non esiste più.

In questa poesia si parla di cose semplici; della neve che è caduta sulla strada e nessuno ci ha ancora camminato sopra; paragona la neve ad un mare bianco: non parla di cose astratte, di cose intangibili, ma di qualcosa conosciuto a tutti.

Con uno zoom sempre più stretto, il poeta passa dal parlare del vento, per raggiungere, sul finale, il suo casolare, in cui il poeta è da solo e la neve lo fa sempre ancora più isolato.

Alla fine, con un balzo di ripresa ci si concentra su qualcosa di ancora più piccolo, un uccellino affamato, ma allo stesso tempo lo zoom si allarga perchè quel passerotto non ha nessun legame con il poeta, ma al contrario è il figlio della natura tanto ampia quanto impossibile da racchiudere in un’immagine.

Come dicevo prima ci sono tantissime poesie sulla neve e, quindi, agli amanti delle nevicate propongo la lettura di “La Neve” di D’Annunzio, “La neve che mai si accumula” di Emily Dickinson,Nevicata” di Guido Gozzano e, ovviamente, tutte quelle di Rodari dato che rimanere un po’ bambini fa sempre bene all’umore.

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