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Covid, perché alcuni casi diventano gravi e altri no? La scoperta di Humanitas e Papa Giovanni

La misurazione dei valori di PTX3, una molecola coinvolta nell’infiammazione, aiuta a valutare lo stato di gravità della malattia

Cosa determina reazioni così diverse di fronte all’attacco del virus SarS-CoV-2? Perché alcune persone si ammalano gravemente e altre meno? Di fronte a quadri clinici complessi e instabili, è possibile prevedere il livello di gravità della malattia?

Uno studio basato su due casistiche indipendenti, portate avanti rispettivamente da una task force dell’IRCCS Humanitas guidata dal prof. Alberto Mantovani che comprende ricercatori e medici in prima linea contro Covid 19, e dal gruppo di medici e ricercatori dell’ASST Papa Giovanni XXIII, guidato dal prof. Alessandro Rambaldi, ha identificato un indicatore di gravità di malattia nei pazienti affetti da Covid 19: la molecola PTX3.

Il lavoro “Macrophage expression and prognostic significance of the long pentraxin PTX3 in COVID-19”, appena pubblicato su Nature Immunology, ha coinvolto 96 pazienti in Humanitas e 54 al Papa Giovanni XXIII. In più, grazie all’accesso ai dati e all’analisi bioinformatica supportata da Intelligenza Artificiale, ha esaminato i dati di pazienti residenti in Israele e USA. I ricercatori hanno indagato i meccanismi dell’immunità innata a livello del sangue circolante e del polmone.

“L’analisi ha portato alla luce il ruolo di un gene scoperto dal mio gruppo anni fa, la PTX3: una molecola coinvolta nell’immunità e nell’infiammazione – spiega il prof. Mantovani, Direttore Scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University -. Nei pazienti malati di Covid-19, questa molecola è presente a livelli alti nel sangue circolante, nei polmoni, nelle cellule della prima linea di difesa (i macrofagi) e nelle cellule che rivestono la superficie interna dei vasi sanguigni (l’endotelio vascolare). Informazioni importanti dal momento che i pazienti malati di Covid-19 presentano una fortissima infiammazione (la sindrome di attivazione macrofagica) che porta a trombosi del microcircolo polmonare a livello delle cellule endoteliali. A seguire, abbiamo verificato che la PTX3 potesse essere un marcatore di gravità, grazie a reagenti e a un test messo a punto dai ricercatori di Humanitas”.

Le due casistiche indipendenti, quella di Milano e quella di Bergamo, confermano che la misura della PTX3 costituisce, ad oggi, il più importante fattore prognostico associato all’aggravamento delle condizioni dei pazienti. “Questi dati – spiega Rambaldi, direttore dell’Unità di Ematologia e del Dipartimento di Oncologia ed Ematologia dell’ospedale Papa Giovanni – confermano la centralità del danno endoteliale nella patogenesi delle manifestazioni più gravi osservate nei pazienti Covid. I livelli circolanti di PTX3, misurati nel sangue, serviranno a guidare la valutazione della risposta ai trattamenti di questi pazienti. La validazione dei risultati ottenuta in due coorti indipendenti di pazienti sottolinea la robustezza e la riproducibilità di questa osservazione e l’importanza di poter utilizzare materiale biologico opportunamente conservato al momento del ricovero di questi pazienti”.

Prossimo passaggio sarà il trasferimento della scoperta dal bancone della ricerca al letto del paziente. “Lo studio, che necessita di ulteriori verifiche e conferme, potrebbe costituire uno strumento importante per guidare i medici nella definizione delle terapie per ogni paziente” – prosegue il prof. Mantovani -. In Humanitas stiamo mettendo il test a servizio di medici impegnati con i pazienti Covid grazie alla collaborazione del Laboratorio di Analisi Cliniche dell’ospedale guidato dalla dottoressa Maria Teresa Sandri. Ci auguriamo che possa aiutare i clinici a valutare tempestivamente la gravità della malattia e curare sempre meglio i malati”.

Partito da un approccio ad alta tecnologia, lo studio arriva a definire un test semplice – basta infatti un esame del sangue per valutare il livello della PTX3 –, a basso costo e potenzialmente condivisibile con tutti. “Lo studio dimostra che l’avanzamento delle conoscenze si fa grazie alla raccolta di campioni biologici e dati personali e sanitari della popolazione – conclude Rambaldi – indispensabili per una efficace ricerca su COVID-19, secondo procedure operative standard internazionali consolidate”.

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