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Il libro

Giorgio Gori debutta in libreria con “Riscatto”

Il volume raccoglie una serie di proposte concrete per ricostruire il Paese.

Il Sindaco di Bergamo Giorgio Gori debutta in libreria con il volume: “Riscatto. Bergamo e l’Italia, appunti per un futuro possibile” pubblicato da Rizzoli.

Il volume raccoglie una serie di proposte concrete per ricostruire il Paese.
Una riflessione che parte dalla “più crudele delle lezioni”, quella impartita dalla tempesta sanitaria e dall’immagine dei mezzi militari che trasportano via da Bergamo le bare delle vittime del Covid19.

Gli “appunti per un futuro possibile”, raccolti in questa serrata conversazione con Francesco Cancellato, tracciano una visione-guida per il compito che ci attende: “curare” il nostro sistema sanitario, garantire ai giovani lavoro e mobilità sociale, rimarginare la frattura tra Nord e Sud, centro e periferie; intervenire sulla scuola per riportarla al centro dell’agire politico, ripensare il welfare e l’inclusione, affrontare l’immigrazione come opportunità e non come mera emergenza.

Giorgio Gori

GIORGIO GORI E LA POLITICA, UN AMORE NATO SUI BANCHI DEL LICEO

(Per gentile concessione di Rizzoli pubblichiamo uno stralcio del libro in cui Giorgio Gori spiega come è nata la sua passione politica). 

Tra il ’74 e il ’79 ho fatto il liceo. Mi sono divertito, ho imparato un sacco di cose, ho costruito amicizie che durano ancora oggi. Ma politica era ovunque, nel bene e nel male. E io mi ci sono buttato a capofitto. Eravamo allora ancora convinti che discutendo, partecipando, investendo il nostro tempo nell’impegno politico saremmo riusciti a cambiare il mondo, a partire dalla scuola: ingenui, però pieni di passione.

Appena arrivato in quarta ginnasio mi imbatto in una serie di assemblee dedicate al Cile e alla repressione di Pinochet: da lì comincio ad interessarmi. Al liceo c’è un gruppo studentesco che si chiama Azione e Libertà, fondato l’anno prima da alcuni studenti più grandi: comincio a frequentarne le riunioni. E per tutto il tempo del liceo faccio principalmente questo, politica. Molto concretamente: batto a macchina il testo de volantini, giro la manovella del ciclostile, la mattina presto sono insieme agli altri fuori da scuola per distribuirli. A casa, subito dopo pranzo, mi inginocchio sul pavimento di camera mia e col pennarello riempio enormi tazebào. Leggo di tutto, discuto, parlo in assemblea, mi candido alle elezioni studentesche, mi faccio eleggere. E’ un’illusione? Forse sì, stretta tra le tensioni di quegli anni. La sinistra studentesca di quel periodo è “extraparlamentare”, contrapposta alla destra estrema del Fronte della Gioventù. Da lì nascono scontri e pestaggi. Il ’77 è l’anno in cui le violenze sono sempre più frequenti. Io stesso ricevo minacce dai fascisti e dalla parte opposta: un giorno un gruppetto di automi armati di bastoni mi insegue fin sotto casa. Il terrorismo è una pianta velenosa che attecchisce anche a Bergamo. Diversi coetanei scelgono la clandestinità e la lotta armata, finché ci scappa il morto – l’appuntato dei carabinieri Giuseppe Gurrieri, freddato nello studio del medico del carcere, vero obiettivo dei terroristi. Nasce qui una colonna di Prima Linea, e attorno c’è una area grigia che fatica a prendere le distanze. Io continuo a dividermi tra gli amici e la politica – certi pomeriggi li passo metà a giocare a carte e a bere e metà a fare le riunioni del Consiglio distrettuale, non puoi capire in che stato – ma il clima è pesante. L’omicidio di Moro è lo spartiacque. La notizia della sua morte arriva mentre torniamo da una gita scolastica, appena scesi dal pullman per una sosta ad un’autogrill vicino a Bologna. E’ uno choc che gela tutto. Di quella breve stagione restano cose a mio avviso importanti – la crescita di una consapevolezza circa i diritti delle donne, se ne devo indicare una – ma una fase di sogni è finita. Esco dal liceo a luglio del ’79. Già l’anno dopo mi raccontano che sia impossibile farci un’assemblea, perché non interessa più a nessuno.

Raccontami la tua passione politica giovanile. Quando hai iniziato? Quali erano i temi che più ti appassionavano? Perchè vi chiamavate Azione e Libertà? Qual era la vostra piattaforma politica? Ma soprattutto, visto che eravamo nel pieno degli anni settanta: hai lanciato anche tu delle molotov come ha raccontato di aver fatto Massimo D’Alema? O qualcos’altro che non ci aspetteremmo, oggi, da uno come te…

Niente molotov, mi spiace. Azione e Libertà era una piccola formazione studentesca che esisteva solo al liceo Sarpi e che per questo tempo fosse vista come molto elitaria dagli studenti delle altre scuole cittadine. Era stata fondata da Andrea Moltrasio – che conosci forse come recente Presidente del Consiglio di Sorveglianza di Ubi Banca – e si ispirava, come suggerisce il nome, alle nobili esperienze di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione. Un movimento dunque d’ispirazione liberal-socialista, potremmo dire, laico e progressista, risolutamente antifascista, lontano però dalle posizioni della sinistra comunista. Qualcuno ci vedeva come moderati, qualcuno più prosaicamente come fighetti. E forse un poco lo eravamo, ma in quel piccolo mondo che era il nostro liceo classico riuscivamo ad essere molto popolari e vincere regolarmente le elezioni studentesche. Ci riunivamo all’inizio nella sede del Pri, sotto i ritratti in bianco e nero di Ugo la Malfa e Giovanni Spadolini – principalmente per convenienza logistica. In realtà non credo d’aver mai votato repubblicano, ma sempre più a sinistra. Radicale, molte volte Psi, persino il Pdup: mai il Pci, fino alla svolta della Bolognina. Azione e Libertà – AeL per per gli adepti – si occupava peraltro quasi solo di scuola. I programmi delle elezioni per il Consiglio di Istituto si occupavano dell’organizzazione degli spazi, del cineforum, un “monte ore” da dedicare (…).

Ma certo quel accadeva – la violenza politica che montava e insanguinava il Paese – imponeva di prendere posizione. E la prendemmo, con molta decisione, mentre la sinistra extraparlamentare rappresentata dal Collettivo studentesco – sostanzialmente assenti le espressioni giovanili del Pci e del Psi – faticava molto di più a trovare la misura. Non ho dunque lanciato molotov, e anzi ho cercato di contrastare chi le lanciava, e più ancora chi sceglieva la P38. In fondo pensavo le cose che penso oggi, seppure con maggiore ingenuità e in modo più istintivo. Non usava definirsi “riformisti”, ma quello ero a ben vedere: un giovane riformista liberale e di sinistra, molto in erba. Devo dirti che non considero la coerenza un valore assoluto: conosco un sacco di gente che nella vita ha cambiato modo di pensare e collocazione politica, in alcuni casi più di una volta, o in modo clamoroso, e non per questo ne penso male. E mi stupisco dunque di come io abbia invece trovato presto la mia posizione sulla mappa, senza mai trovarmi spinto a mutarla. Verso la fine del liceo avevo preso a leggere Mondoperaio e Critica Sociale, che in quel periodo alimentavano un vivace dibattito proprio intorno alle ragioni della sinistra riformista, in contrapposizione con quella di matrice marxista e gramsciana. Leggevo Carlo Rosselli, Bobbio e Luciano Pellicani. E’ probabile che molte cose mi sfuggissero – avevo solo 18 anni – ma andavo pian piano formandomi un’idea delle cose. Mi convincevo così della necessità di tenere insieme libertà individuali e giustizia sociale, o che il pluralismo economico fosse fondamentale per la tutela del pluralismo politico. Quando nell’estate del ’78 l’Espresso pubblicò il “Vangelo socialista” di Bettino Craxi – il famoso saggio su Proudhon – mi sembrò d’aver capito da che parte volevo stare.

Come e quando è finita questa tua prima stagione politica? Com’è che dalla televisione sei passato a fare il giornalista? Mi hai raccontato che hai fatto incontri interessanti, in questo tuo primo cambio di vita…

È finita quando ho sono uscito dal liceo, quindi molto presto. Volevo studiare – mi ero iscritto ad Architettura, al Politecnico, e all’inizio frequentavo praticamente tutti i giorni – però volevo anche riuscire a guadagnare qualcosa. Poi avevo una morosa. Per la politica quindi non c’era più molto tempo. E poi ti ho detto, era cambiata l’aria. Per mettere insieme due soldi avevo iniziato a scrivere qualche articolo per il Giornale di Bergamo – il primo, me lo ricorderò sempre, sull’aumento del prezzo del latte – già nell’estate tra la seconda e la terza liceo, e poco dopo la maturità avevo rivisto un amico più grande di me, Lorenzo Pellicioli, conosciuto ad attaccare manifesti quando lui frequentava la Gioventù liberale. Ora molti sanno chi è Lorenzo Pellicioli, che è certamente una delle persone più intelligenti che io abbia conosciuto, ma è difficile immaginare quanto sia stato importante per me. Non una: tre volte. La prima quando, giusto in quel periodo, mi ha proposto di collaborare con BergamoTv, che aveva fondato da poco. Siamo alla fine degli anni Settanta e radio e tv libere nascono come funghi. Ovviamente gli dico di sì e mi ritrovo a condurre – più sbarbato che mai – un programma che si chiama “Ok giovani”, dove mi produco in improbabili recensioni di libri e film. L’anno dopo Lorenzo se ne va a Milano, io lascio la tv e inizio a collaborare con Radio Bergamo, dove preparo e leggo il notiziario. E lì incontro per la prima volta Vittorio Feltri, che arriva e subito mi cazzia. “A chi vuoi che interessino le notizie di politica internazionale?” – mi dice – “Devi dare gli orari delle farmacie!”. Probabile che avesse ragione lui. Di lì a poco, siamo nell’81, nasce un nuovo quotidiano locale, Bergamo Oggi, affidato ad una cooperativa di giornalisti, e ci vado a lavorare full time. Continuo a studiare ma smetto di saltare sul treno delle 7.08 per Milano. Faccio il cronista per le pagine di provincia, mentre la domenica chiudo qualche pagina di calcio locale. La mattina presto e la sera tardi preparo gli esami. E penso che questo sia il lavoro che voglio fare, che in fondo è un po’ la continuazione della politica, perché raccontare i fatti e indagare la realtà è anche quello, in qualche misura, un modo per cambiare il mondo. C’è anche qui molta ingenuità, però m’impegno. La redazione è fatta di pochi giornalisti esperti e molti giovani. Tra gli altri ci sono Cristiano Gatti e Ildo Serantoni. Le pagine di economia sono affidate a Maurizio Belpietro, decisamente meno a destra di oggi, e a Roberto Papetti, entrambi destinati ad un futuro da direttori. Purtroppo però il giornale non va bene, l’Eco di Bergamo ci surclassa. Arriva un nuovo editore, la cooperativa dei giornalista esce e fonda una nuova testata, che ha però vita breve. Torno a Bergamo Oggi, “ripescato” da Vittorio Feltri che nel frattempo ne è diventato il direttore. Arrivo perfino a iniziare l’agognato praticantato dopo tre anni di “abusivato” a tempo pieno. Finché mi licenziano. In tronco e senza un vero perché. Feltri mi dice che lui non avrebbe voluto, ma sai, il nuovo editore. Anni dopo dell’episodio una versione diversa e probabilmente più sincera: “Era bravo ma troppo di sinistra, e poi non verificava bene le notizie”. Io resto convinto d’aver pagato alcuni articoli su una speculazione in montagna, ma chi lo sa. Fatto sta che sono a piedi e soprattutto senza un quattrino. Allora vivevo ancora con i miei genitori ma quei i soldi che guadagnavo – 350 mila lire, alla fine – erano la mia indipendenza, la possibilità di andare al cinema, di portare a cena la ragazza senza dover chiedere loro la “paghetta”. Mi metto dunque in caccia. Scrivo qualcosa per la Domenica del Corriere, per Qui Touring, persino per Topolino, mi metto a fare l’ufficio stampa di un duo di comici bergamaschi, ma faccio fatica. Finché non ritrovo Lorenzo Pellicioli, che nel frattempo ha fatto carriera e di cui leggo casualmente su un foglio quindicinale che usciva allora: è il nuovo direttore generale di Retequattro, allora ancora di Mondadori. Lo chiamo, anzi tempesto di telefonate la sua segretaria finché non cede e mi fissa un appuntamento. Lo incontro e mi propone un contrattino di pochi mesi.

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