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La grande rimozione, gli oggetti appartenuti ai bergamaschi uccisi dal Covid

Il settimanale L'Espresso dedica un ampio reportage agli oggetti delle vittime del Covid. "Come in una sorta di museo diffuso della tragedia tracce di passioni durate decenni. Che ci aiutano a guardare negli occhi la realtà. A non cadere nella tentazione di negarla"

Nel numero in edicola dal 23 agosto de L’Espresso c’è un bellissimo reportage intitolato “La Grande Rimozione” di Linda Caglioni accompagnata dalle fotografie di Paolo Arnoldi. Occhiali. Zaini. rasoi. Cappelli. E altri oggetti appartenuti ai bergamaschi uccisi dal Covid.

Che cosa ha spinto Caglioni e Arnoldi in questo progetto-inventario? La volontà di non dimenticare. “Come in una sorta di museo diffuso della tragedia tracce di passioni durate decenni. Che ci aiutano a guardare negli occhi la realtà. A non cadere nella tentazione di negarla”.

Ne riportiamo alcuni stralci. L’intero reportage sull’Espresso.

“Nel vecchio armadio di una casa di Brembate è piegata con cura una maglia dell’Atalanta. Battista Villa la metteva quando andava allo stadio – e quante soddisfazioni quest’anno, col “Papu” Gomez a far impazzire le difese avversarie. Ma Battista quella maglietta la indossava anche quando andava in ferie con la moglie, la sua Nicoletta, per sfoggiarla nei posti più lontani, dalla Giamaica al Brasile, dal Messico alle Maldive. Sì, perché il Villa viaggiava, anche adesso che ormai aveva superato i settanta, e si sentiva forte come sempre. Quando lo hanno portato via in ambulanza si è quasi arrabbiato con gli infermieri, «guardate che a me mica riuscite a trattenermi in ospedale».
Il coronavirus lo ha portato via per sempre lo scorso 15 marzo.

Come Battista, circa seimila bergamaschi sono rimasti finora vittime del Covid-19. Come Battista, se ne sono andati soli, senza poter dire addio ai loro cari.

Il primo, giusto sei mesi fa, il 24 febbraio. Si chiamava Franco Orlandi, era un ex camionista di 83 anni, il fiato gli è mancato all’ospedale di Alzano. Da tre giorni il governo aveva imposto la zona rossa di Codogno e Vo’ Euganeo, ma di Bergamo e della Val Seriana si iniziava a parlare appena. E nessuno aveva capito la valanga che stava per precipitare.

Di certo non poteva capirlo Giuseppa Nembrini, “la Rina”, 83 anni, costretta sulla sedia a rotelle da quando ne aveva 69. Obbligata ad affidarsi al marito Giovanni per compiere anche il più semplice dei gesti, l’unico strumento che per anni le aveva restituito un frammento dell’indipendenza perduta era la sua macchina da cucire, una Singer del 1994. Ricurva sulle spoline e sugli aghi, nei pomeriggi d’inverno Rina intrecciava in decorazioni di cotone i fili attraverso cui manifestava il suo talento. Fili con cui, al contempo, si teneva legata stretta alla sua libertà. È morta il 16 marzo, una settimana dopo il marito.
Rina è una delle 188 vittime di Nembro, comune tra i più colpiti del mondo. E le case di quel paese oggi rigurgitano di oggetti da conservare, come gesto di rispetto per chi se n’è andato ma anche come monito per noi che siamo rimasti.

Tra questi c’è anche il basco di Ilario Lazzaroni, storico presidente degli artiglieri locali. Aveva ricoperto quel ruolo per quasi 30 anni, andava a tutti i raduni, a tutti i pranzi e le cene, sempre indossando quel morbido cappello nero che, prima di uscire di casa, si sistemava sulla testa di sbieco, come da tradizione. Aveva lasciato il ruolo di presidente solo qualche mese prima di andarsene, spinto dalla moglie e dalla figlia, che premevano affinché si arrendesse all’idea di essere ormai vecchio per ricoprire ruoli organizzativi. Ma lui aveva continuato a dare una mano dove serviva. E quando si presentava l’occasione, indossava la divisa completa. Si infilava i pantaloni, la camicia verde. E, da ultimo, quel basco.

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