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L'intervista

“Io, medico nell’emergenza Covid: non dormo, negli occhi ho quei malati disperati e soli”

Abbiamo chiesto al dottor Marcello Carminati, direttore dell'Unità di chirurgia plastica dell'ospedale di Bergamo, di raccontarci cosa gli ha lasciato questa drammatica esperienza

“I ricordi di quelle terribili settimane sono indelebili: il pensiero delle persone che sono morte sole mi commuove e toglie il sonno”. Così il dottor Marcello Carminati, direttore dell’Unità di chirurgia plastica dell’ospedale di Bergamo, racconta come i drammatici momenti dell’emergenza Coronavirus lo abbiano fortemente colpito.

I medici, gli infermieri e gli operatori sanitari del Giovanni XXIII sono stati in primissima linea nella battaglia contro il Covid-19 e lui, che di professione è chirurgo plastico, come molti altri specialisti, si è “riconvertito” per contribuire ad affrontare l’epidemia. Lo abbiamo intervistato chiedendogli come è andata e cosa gli ha lasciato questa esperienza.

Come ha vissuto l’emergenza Coronavirus?

A Bergamo è stato come se ci fosse caduto addosso un meteorite, uno tsunami che improvvisamente ha stravolto la nostra vita quotidiana e lo svolgimento della nostra professione che, nel caso della chirurgia plastica, è costellata di interventi con un set di routine a cui ci dedichiamo normalmente. Prima del lockdown, dal 20 febbraio – quando si è appresa la notizia del primo caso a Codogno – per una settimana circa c’era solo il sentore che stesse per succedere qualcosa di grave, abbiamo vissuto in una sorta di limbo nel senso che la nostra attività proseguiva regolarmente. Dai colleghi intuivamo qualcosa e vedevamo i letti del pronto soccorso occupati ma la reale percezione di ciò che stava accadendo l’abbiamo avuta circa dieci giorni dopo: a inizio marzo il nostro ospedale ha convocato una riunione che rimane una pietra miliare e ci ha reso coscienti della situazione in modo molto potente.

Ci spieghi

Il comitato di crisi istituito dalla direzione ci ha spiegato quello che stava succedendo e ci ha chiesto collaborazione perchè il Coronavirus si stava diffondendo rapidamente come una macchia d’olio. Ricordo le parole che ci hanno detto: “Siamo in guerra e bisogna salvare il maggior numero di persone”… rimasi colpito così tanto che, appena sono tornato a casa, ho detto alla mia famiglia che mi sarei isolato. Stavo bene ma avevo paura di contagiare i miei famigliari. La riunione è stata una “chiamata alle armi” in tempi non sospetti: la tempistica è importante perchè è facile parlare dopo, quando gli avvenimenti si sono già verificati e indicare soluzioni alternative. L’incontro è avvenuto prima del lockdown, quando in Italia ancora non si dava peso al Covid e le persone si accalcavano alle piste da sci. Tutto era in divenire, non si sapeva ancora l’entità dell’epidemia ma ci è stato chiesto di riconvertirci e occuparci di settori che non sono di nostra pertinenza ma afferiscono ai pneumologi.

Come avete reagito?

Dopo un primo momento con occhi sbarrati, la risposta è stata commovente: tutti si sono resi disponibili e fatti trovare pronti senza alcuna eccezione. Lo smarrimento iniziale ha subito lasciato spazio alla volontà di dare il proprio contributo in questa battaglia: abbiamo rispolverato i libri e pragmaticamente ci siamo detti che non eravamo soli ma avremmo potuto contattare qualche pneumologo che avrebbe potuto darci indicazioni nel caso ne avessimo avuto necessità. In maniera eccezionale l’ospedale ha fatto uno sforzo notevole, sovraumano, compiuto nel giro di pochissimi giorni. Ricordo drammaticamente bene quelle giornate, a Bergamo l’emergenza è stata agghiacciante, soprattutto dall’8 al 25 marzo: sembrava un bollettino di guerra, ogni giorno la situazione diventava più pesante, era una corsa contro il tempo e gli spazi perché dovevamo aumentare i posti in rianimazione, allestire nuovi reparti Covid e tutto ciò implica personale addestrato.

E lei come ha vissuto questi momenti?

Dopo un primo sgomento, ho avuto tanta voglia di dare una mano nell’affrontare l’emergenza. Poi mi sono infettato, fortunatamente senza avere molti sintomi ma, con il tampone positivo, ho dovuto rimanere a casa in isolamento. La paura personale è stata relativa perchè noi medici rischiamo ogni giorno la vita (per esempio, curando pazienti potenzialmente portatori di patologie gravissime come epatite C e HIV, il rischio di ammalarsi con una puntura accidentale per un chirurgo è più che concreto): all’inizio ho pensato che avrei potuto morire anch’io, ma quando ho visto che non mi ero aggravato la preoccupazione è diminuita. Invece mi dispiaceva stare fermo in balia delle notizie che si rincorrevano sui media e avrei voluto aiutare i miei colleghi.

Cosa l’ha colpita maggiormente?

Il lato umano dei malati. Sono stato male e ho avuto più volte le lacrime agli occhi pensando a questi pazienti: sono stati colpiti soprattutto quelli dai 75 agli 85 anni, la generazione che ha lavorato tutta la vita e si è sacrificata prima per i figli e poi per i nipoti. Saperli ammalati e a volte morire senza avere vicino i familiari, senza poter ricevere l’abbraccio di un figlio o della moglie è stata la cosa che mi ha ferito di più. Purtroppo non si poteva fare altro ma questo mi ha tolto il sonno. È stato molto doloroso non solo vedere quante persone morissero, ma anche come se ne andavano: erano sole e spesso lucide, capivano quello che stava succedendo… noi abbiamo cercato di confortarli, aiutarli e fare da trait d’union con la famiglia ed è stato straziante.

Cosa le chiedevano?

Purtroppo ho visto spegnersi molte persone, dal marito che raccomandava di riferire alla moglie che la amava al genitore che avrebbe voluto abbracciare i suoi figli, ma anche una donna di 47 anni malata che diceva: “Ho quattro figli e ho già perso il marito per un tumore tre anni fa, fatemi vivere non per me ma per i figli”. Il pensiero ancora mi commuove: sono ricordi indelebili, è stata una catastrofe e si scolpirà nelle nostre teste come una guerra.

E come sta vivendo la nuova fase?

Da una parte, come tutti, c’è la voglia di tornare a vivere, perché per tre mesi non abbiamo vissuto, e c’è la volontà di riprendere appieno il lavoro in quanto ci sono pazienti in attesa dei nostri interventi routinari (tumori cutanei, ricostruzioni mammarie post-oncologiche etc). Dall’altra c’è il rispetto per quello che è successo e la paura che possa tornare. Sto elaborando i ricordi analogamente a un lutto: come avviene dopo una battaglia si contano i morti, si rivivono gli incubi e ci si rinfranca tra i sopravvissuti.

Per concludere, come l’ha cambiata questa esperienza?

Mi lascia due insegnamenti: la fiducia nella nostra versatilità unita alla voglia di fare dei colleghi e del personale infermieristico e l’importanza dell’umanità nel rapporto con il paziente. A un chirurgo viene spontaneo concentrarsi sulla qualità dell’intervento che deve compiere, ma anche un sorriso o dare conforto nei momenti più difficili appare altrettanto fondamentale.

Le piace la definizione di eroe?

A me, come a tanti altri colleghi, infastidisce perché abbiamo compiuto quello che facciamo sempre. Tutti i giorni rischiamo la vita e sarebbe bello che non ci si accorgesse del nostro impegno quotidiano solo in situazioni estreme come questa salvo poi dimenticarsene quando tutto è finito.

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