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Le testimonianze

Emergency lascia Bergamo: “Esperienza dura, ma abbiamo imparato molto anche noi”

Dai ringraziamenti della presidente Rossella Miccio al racconto della cardiologa Daniela De Serio: "Coi pazienti si è creata grande empatia".

Dal 6 aprile, quando l’ospedale da campo in Fiera ha accolto i primi pazienti, la situazione relativa alla diffusione del Coronavirus a Bergamo è profondamente cambiata: piano piano le terapie intensive si stanno svuotando e domenica 24 maggio dal presidio sanitario realizzato a tempo record in via Lunga è uscito anche l’ultimo ospite ricoverato.

Dopo aver scongiurato per un soffio il rischio collasso, il sistema sanitario bergamasco spinge per ritornare alla normalità e lo può fare grazie all’impegno di tutti coloro che hanno reso possibile, nel giro di una settimana, la nascita di una struttura che ha permesso di alleggerire l’insostenibile pressione alla quale sono stati sottoposti gli ospedali del nostro territorio durante le settimane più dure dell’emergenza.

Tra questi anche medici, infermieri e igienisti di Emergency, gli ultimi a lasciare Bergamo tra la serata di martedì 26 e la giornata di mercoledì 27 maggio dopo aver gestito la terapia intensiva dell’ospedale da campo.

“Siamo stati felici di aver dato una mano in questa situazione estremamente difficile per Bergamo, che abbiamo potuto toccare con mano quanto sia stata colpita dalla pandemia – spiega la presidente della Ong Rossella MiccioCi siamo trovati a far parte di una struttura modello, dentro la quale abbiamo avuto un grande confronto col personale dell’ospedale Papa Giovanni XXIII. Quando siamo arrivati abbiamo trovato grande fermento: questa è stata la dimostrazione che quando tutti fanno la propria parte la nostra società è migliore”.

Il contingente di Emergency è stato composto da una cinquantina tra medici e infermieri e da una trentina di volontari identificati come igienisti: “Un lavoro che ci siamo inventati strada facendo – continua Miccio – All’inizio abbiamo fatto fatica, non lo nego: dovevamo rapportarci a un sistema ospedaliero italiano, molto più strutturato rispetto a qualsiasi altra realtà dove operiamo solitamente. Oggi ci sentiamo arricchiti da questa esperienza, avendo visto da vicino la malattia e imparato molto dal lato organizzativo. Qui i pazienti hanno avuto un decorso lungo, considerate che l’ultima paziente ad uscire dall’ospedale è stata anche la prima a entrarci”.

Ma Bergamo, svela la presidente di Emergency, è stata anche palestra fondamentale: “All’estero abbiamo immediatamente applicato le stesse procedure di successo che abbiamo appreso qui: l’esserci scambiati conoscenze che sono tornate utili a tutti”.

Tra gli operatori sanitari che hanno lavorato a Bergamo anche Daniela De Serio, cardiologa intensivista che ha messo piede nell’ospedale da campo quando ancora era solo una fiera: qualche giorno dopo il suo arrivo aveva affidato a noi di Bergamonews le sue prime impressioni, con un misto di preoccupazione e speranze (Leggi qui la sua intervista).

Daniela de serio Emergency
Daniela De Serio

Legata all’associazione umanitaria dal 2011, ha passato quattro anni in Sudan e poi un anno tra Sicilia e Calabria per il “Programma Italia”, a contatto con i migranti: per lei, nonostante le esperienze professionali con o senza la Ong, la pandemia era un grosso punto interrogativo.

“Al termine di questa esperienza posso dire che lavorare con il supporto di un ospedale come il Papa Giovanni mi è stato di grande aiuto – ammette – Così come lo è stato poter contare sull’equipe di Emergency che ha combattuto ebola in Africa e aveva dunque ben chiaro cosa volesse dire operare con le malattie infettive. Abbiamo fatto tesoro di tutti i protocolli che l’ospedale aveva già assunto dall’inizio di marzo e per noi è stato un valore aggiunto a livello scientifico, perchè non siamo mai partiti da zero come successo in altre realtà”. 

Nel suo lavoro quotidiano, fatto di turni da 6-8 ore, anche il rapporto con la figura dell’igienista: “Un supporto importante – racconta -, in particolare nel rispetto delle norme di distanziamento e delle delicate procedure di vestizione e svestizione”.

Per lei, che per un mese e mezzo ha vissuto in una stanza d’albergo in pieno centro, non è stato semplice affrontare emotivamente la situazione: “Nei momenti di pausa dal lavoro, come in mensa, non potevamo avvicinarci ai colleghi: si pranzava e cenava singolarmente. Una volta rientrati in hotel ognuno aveva la propria camera, isolato, senza gli affetti o banalmente le proprie cose. Staccare dal turno non significava relax: mi è mancata casa mia, il mio cane. Mentalmente è stata dura”.

Ma l’esperienza, sicuramente, l’ha fortificata e da Bergamo Daniela si porterà in dote qualche certezza in più: “Questo mese e mezzo mi lascia una capacità di adattamento estremo, più che in altri contesti in cui ho lavorato – spiega – A differenza del passato mi sono trovata a fronteggiare qualcosa di sconosciuto: come medici non siamo abituati a non sapere, ragioniamo sempre per protocolli e linee guida. Questa sicurezza è venuta meno, compensata dal grande aiuto di potersi confrontare con un ospedale già esperto come il Papa Giovanni. Mi resterà la flessibilità nell’approccio a una malattia nuova, che mi ha messo di fronte anche al grande limite fisico dell’operare tutta bardata”.

Emergency fiera

Una difficoltà che ha condizionato il suo rapporto con i pazienti: “Durante le prove di vestizione e svestizione ero molto concentrata sulla corretta procedura, ma il contatto con la gente mi ha imposto di dover cambiare il mio solito metodo di comunicazione: non potevo contare sul sorriso e sulle espressioni facciali, che per esprimere positività sono fondamentali. Era un particolare che non avevo considerato a inizio missione: poi mi sono adattata, preferendo una gestualità accentuata e molte più parole”.

Una barriera fisica bypassata in fretta, che ha significato un rapporto più profondo con il paziente: “In queste settimane abbiamo partecipato alle loro videochiamate: abbiamo così conosciuto le loro famiglie, i figli, i nipoti, gli affetti che li aspettavano a casa. Sapevamo ormai tutto di loro, senza averli mai visti. Di una paziente ho perfino imparato il nome di tutti i suoi gatti. Tra noi si è creata grande empatia”. 

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