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L’infermiera al tempo del virus: “Turni infiniti, solo alla fine puoi permetterti d’aver paura”

Una struggente testimonianza dal Policlinico Ponte San Pietro: "Tuta e mascherine una seconda pelle. Cerchiamo nonostante tutto di esser forti, e abbiamo intenzione di andare avanti, fino alla fine"

Riceviamo e pubblichiamo la struggente testimonianza di Susy Carozzi, infermiera del Policlinico Ponte San Pietro, impegnata quotidianamente nella lotta al Coronavirus.

LA LETTERA

Sono un’infermiera del reparto di Ortopedia e Traumatologia del Policlinico San Pietro. O almeno, lo ero sino allo scorso 4 marzo. Poi tutto è cambiato. Da quel giorno ogni reparto della struttura è stato riconvertito per la gestione dell’emergenza Covid-19. Da quel giorno, in pratica, le degenze come le conoscevamo prima non esistono più.

Se ho deciso di scrivere, è stato per difesa. Soprattutto dei miei colleghi. E non parlo solo di infermieri. Medici, operatori socio-sanitari, specializzandi, addetti alle pulizie… Qui dentro siamo tutti colleghi. Lo siamo sempre stati, adesso più che mai.

Quel 4 marzo – era un mercoledì – una semplice telefonata ha avuto il potere di segnare un prima e un dopo nelle nostre vite, catapultandoci in una dimensione parallela terribile, una realtà sanitaria tragica, inimmaginata e inimmaginabile. E così abbiamo fatto quello che ci è stato chiesto di fare. Non abbiamo battuto ciglio e abbiamo indossato tute, mascherine, guanti, soprascarpe. Senza sapere bene cosa stavamo facendo. Senza sapere che sarebbero diventati la nostra seconda pelle.

Da quel giorno l’ospedale ha cambiato faccia, i nostri turni si sono dilatati, come il tempo, come le ore, che però non bastano mai. Sono le coordinate paradossali di un’emergenza nuova, sconosciuta, senza soluzione di continuità. E se fuori il silenzio della nuova quotidianità è triste e surreale, dentro è un inferno fatto di dolore, fatica, lacrime, senso di inadeguatezza.

Noi infermieri giriamo da una stanza all’altra come trottole impazzite, cercando di organizzare mentalmente ogni cosa prima di passare all’azione. Abbiamo imparato che ogni gesto deve essere calcolato in anticipo per evitare dispersioni di energia preziosa, dobbiamo averne per dieci ore di fila, dobbiamo essere lucidi. Prepariamo i farmaci, assistiamo i pazienti – molti in condizioni quantomeno critiche – accorriamo al suono dei campanelli e di rado riusciamo a prendere una boccata d’aria prima della fine del turno. E poi seguiamo i medici. I medici. Quelli che lavorano h24, senza lamentarsi, mai.

Sui volti dei pazienti c’è preoccupazione, paura. La stessa che sentiamo noi. Ma noi siamo gli infermieri, dobbiamo tenere botta sempre e comunque, tanto più che ai loro cari non è permesso entrare in reparto. Così facciamo di tutto per tranquillizzarli, per alleviare loro la pena. Le mascherine ci schiacciano la faccia, lacerandocela per l’abuso, e spesso i degenti parlano da dietro a un casco rumoroso. È tutto più difficile, così alziamo la voce oppure comunichiamo a gesti. Ciò che conta è fare due chiacchiere, o almeno non lasciar mai mancare una carezza, uno sguardo un sorriso. Il tempo per restare umani non deve mancare. Mai.

E poi c’è lui, il telefono del reparto. Un suono a basso continuo che abbiamo imparato a temere quasi quanto il virus. I parenti vogliono avere aggiornamenti sulle condizioni di salute dei degenti. Sono madri, padri, figli, nipoti… Sono telefonate emotivamente cariche. Alcuni piangono, si sfogano, tanti ci ringraziano. In queste circostanze diventa ancora più difficile essere abbastanza lucidi, rassicuranti, calmi. Sentirsi adeguati impossibile. E a ogni telefonata il cuore ti si appesantisce un po’ di più.

Ma quando ti ci ritrovi faccia a faccia è ancora peggio. Da dietro il vetro incroci i loro occhi carichi di lacrime. È la traccia che il dolore lascia sui loro volti: la consapevolezza di non poter entrare a stringere la mano del proprio caro. La consapevolezza, talvolta e sempre più spesso, che non lo vedranno mai più in vita. Alcuni ti guardano come se fossi un extraterrestre, altri vedono in te il loro unico tramite possibile. Provi a consolarli, fai di tutto per riuscirci e a volte ci riesci. Crei persino dei singolari legami di amicizia, che non ti spieghi del tutto. Fiori di pura bellezza nella tragedia.

Alla fine del turno ti togli la mascherina e scherzi con un collega sui cerotti che vi metterete il giorno dopo per riuscire di nuovo a portarla. Saluti incrociando chi sta per prendere il tuo posto con la consapevolezza che l’uragano che ti ha attraversato per quelle ore adesso ribalterà i tuoi colleghi.

Sei fuori e finalmente respiri. Dismetti il sorriso e sali in macchina. Ma prima di mettere in moto per tornare alla tua vita familiare scombussolata, ti fermi. Solo un momento, per lasciare che la tensione ti attraversi. E lì, immancabilmente, realizzi di avere paura. Sì, la fine del turno è quando puoi permetterti di avere paura.

Una volta a casa ti fai una doccia bollente per lavare via lo sporco, la fatica, le lacrime. Cerchi di distrarti come puoi e leggi qualche giornale in cerca di buone notizie. E invece ti ritrovi articoli su articoli di ricordo di persone che non ce l’hanno fatta. È vero, sono morte tantissime persone. Ed è vero, non eravamo preparati, tanto più che lavoriamo decimati noi stessi dal virus.

Eppure, ogni giorno andando al lavoro vorrei solo abbracciare i miei colleghi, un’equipe meravigliosa. Vorrei ringraziarli per come sono stati in grado di affrontare questa emergenza, per come stanno dando il massimo. E soprattutto per come sono vicini ai pazienti, con le loro coccole, parole e preghiere, che li fanno sentire meno soli.

Qui al Policlinico San Pietro non si molla, continuiamo a rischiare la vita in prima persona, nonostante tutto. Cerchiamo, nella tensione, nell’estrema stanchezza, nella paura, di esser forti. E abbiamo intenzione di andare avanti, fino alla fine. Perché noi non facciamo gli infermieri, noi siamo infermieri.

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